Le crisi, improvvise accelerazioni di una storia che si fa vorticosa, hanno da sempre trasformato costumi e abitudini introducendo usi prima impensabili. Si pensi, per non andare lontano, allo shock economico del 2008 (e degli anni seguenti), che, rendendo impossibile ad ampie fasce della popolazione vivere solo del proprio lavoro, ha sancito la diffusione di quelli che il giornalista Riccardo Staglianò ha definito “lavoretti” e l’affermazione di piattaforme digitali di servizi capaci di far “arrotondare” il fornitore e risparmiare il fruitore. Dal punto di vista lavorativo – ma anche esistenziale, sociale e culturale – la grande rivoluzione apportata dalla crisi pandemica è senz’altro quella che ha riguardato la diffusione, innanzitutto come necessità coatta per individui confinati nelle proprie abitazioni, del cosiddetto smart working. Ma usi inediti, introdotti dalla pressione degli eventi esterni, sono spesso usi non regolamentati, lasciati all’arbitrio e alla contrattazione individuale, poco efficienti. Per lo smart working già la terminologia è fallace: spesso c’è poco di smart nel telelavoro che, con una certa esterofilia, così chiamiamo in Italia, e che è lontano da quella «nuova filosofia manageriale, in grado di riconfigurare a tutto tondo la prestazione lavorativa» (p. 5) e che implica un nuovo stile di vita per l’intero tessuto sociale. Per Francesco Maria Spanò, curatore del volume Lo smart working tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, il lavoro agile è l’esito inevitabile della rivoluzione digitale e, implicando la necessità di una ristrutturazione del rapporto lavorativo, a partire dalla relazione fondamentale di fiducia tra dipendente e datore, richiede un quadro riflessivo e giuridico in grado di normalizzarne e regolamentarne il prima possibile l’uso.
Ciò a cui noi moderni non potremmo rinunciare a nessun costo è il valore dell’autonomia individuale. È da questo assunto fondamentale, che distingue le nostre società occidentali dalle repubbliche antiche, in particolare da quelle militari come Sparta – dove, secondo la celebre ricostruzione di Benjamin Constant, il commercio e la scelta individuale erano collocati ai margini della scala dei valori –, che prende le mosse il volume pubblicato a inizio 2023 per Rubbettino, e che ospita contributi di autori dalle provenienze disciplinari e professionali più varie (dalla psicologia al management culturale, dal diritto all’imprenditoria digitale). Come scrive Spanò, Direttore delle risorse umane presso l’Università Luiss Guido Carli, il significato che oggi attribuiamo al lavoro è prevalentemente quello di «risultato di una scelta professionale, uno strumento di autorealizzazione» (p. 11). Si potrebbe sottolineare il carattere spesso ideale di questa definizione – per molti il lavoro rimane drammaticamente escluso dalle logiche dell’autorealizzazione, costituendo anzi una fonte di frustrazione –, ciò non toglie che lo smart working, se correttamente inteso e praticato, permette di prolungare l’ideale moderno di uno “spazio dell’autonomia” che permetta di conciliare, in libertà, lavoro e vita. Ciò non implica necessariamente estraneazione e isolamento rispetto al contesto sociale e lavorativo: come si nota acutamente nel volume, la cosiddetta “patologia dell’abbandono” «riguarda anche i lavoratori costretti a trasferirsi da piccoli borghi e centri storici per lavorare nelle grandi metropoli» (p. 13), secondo fenomeni ciclici di urbanizzazione che hanno caratterizzato fin dalle origini le società industriali, spesso con esiti sociali, esistenziali, igienici ed ecologici catastrofici (basti pensare alla Londra di inizio Ottocento).
Ecco allora che lo smart working, lungi dal costituire solo uno strumento rivolto al benessere e alla qualità di vita dei singoli, viene presentato in Lo smart working tra la libertà degli antichi e quella dei moderni anche come una risposta alle problematiche che sfilacciano l’intero tessuto sociale. Non bisogna infatti dimenticare che, come insegnava il padre della sociologia francese Émile Durkheim, il processo tipicamente moderno di valorizzazione dell’autonomia individuale si accompagna – solo apparentemente in maniera paradossale – ad un aumento delle interdipendenze e ad un infittirsi dei rapporti sociali. Si tratta, per Spanò e per gli altri autori del volume, di non subire le grandi trasformazioni sociali del nostro tempo. Ne è un esempio il fenomeno dello svuotamento delle aree interne, reversibile (anche) grazie alla possibilità dello smart working: quello che nel marzo 2020 si è svolto in fretta e furia – nonché con una certa drammaticità –, cioè il ritorno ai propri territori di provenienza o elezione, il ripopolamento dei borghi e dei centri storici, può diventare – grazie a un’infrastruttura adeguata – una scelta che non sia sinonimo di sacrificio delle opportunità lavorative e formative. Le conseguenze benefiche, in tal senso, riguardano anche una delle sfide cruciali del nostro tempo, quella ecologica. Ci si rammenti come la natura fosse parsa riprendersi i propri spazi nel corso del periodo pandemico: effettivamente, come riporta Walter Simonis nel suo contributo Smart working e sostenibilità ambientale, a causa delle restrizioni le emissioni degli edifici italiani sono diminuite di quasi due tonnellate di CO2 per ogni lavoratore da remoto, a fronte di un incremento delle emissioni domestiche di “soli” 776 chili per abitazione. Allora non sono solo aree interne, borghi e campagne a costituire una soluzione alla congestione delle metropoli, ma anche il modello di condivisione, sostenibilità e prossimità rappresentato (almeno idealmente) dalle smart city.
Ma che cosa dovrebbe allora essere una modalità di lavoro effettivamente smart? Secondo chi ha ideato il concetto, Peter Drucker, economista e teorico del management, il metodo smart dovrebbe procedere per obiettivi, ognuno dei quali dovrebbe essere – come spiegano Fulvio Giardina e Gabriele Salvatore Vito nel loro contributo Smart working o smart living? – specifico, misurabile, raggiungibile, realistico e scadenzato. In quest’ottica, che implica una decisa presa di responsabilità da parte del dipendente e una forte fiducia da parte di capi o datori di lavoro, un lavoratore che abbia portato a termine l’obiettivo prima della fine della giornata di lavoro avrebbe più tempo da dedicare a se stesso o alla propria famiglia. Si tratta di un metodo che, come mostra Ginevra Castiglione nel suo articolo su Nuove opportunità per il lavoro femminile, può contribuire a un miglioramento dell’equità lavorativa e retributiva: se le donne sono spesso costrette a un sacrificio delle prospettive di carriera a causa delle mansioni di cura che sono loro socialmente e culturalmente imposte, liberare tempo attraverso una concezione objectives-based vuol dire anche spingere verso una redistribuzione delle mansioni di cura.
Il lavoro agile implica anche – e forse prioritariamente – un ripensamento degli spazi di lavoro. Nonostante l’ufficio come luogo di lavoro sia sorto in termini relativamente recenti, ormai nella nostra cultura quella tra produttività e presenza fisica (di gruppo, concentrata) è un’identità inestricabile, che ha anche a fare con un paradigma di controllo pensato ed esercitato in termini di visione (si parla non a caso di “supervisione”). «Un modello – scrive Alessandro Scaglione in Ripensare casa e ufficio – che non solo de-responsabilizza la persona, ma alimenta quella separazione lavoro-famiglia che lo smart working ci offre invece di comporre e di aggiornare al contesto e alla cultura dei millennial e della generazione zeta che li incalza» (p. 138) – una cultura che nel lavoro vorrebbe vedere incorporati i valori della sostenibilità e dell’impegno sociale. Ma smart working, come detto, non significa telelavoro, o remote working, bensì scelta autonoma da parte del lavoratore degli spazi di lavoro: l’azienda stessa (o l’organizzazione pubblica) può ritrovare il suo ruolo formativo e relazionale se vissuta non come costrizione ma come spazio sociale scelto consapevolmente. Come sostiene l’architetto Stefano Boeri, di cui nel volume è riportato un brano tratto da Urbania (2021) e dedicato alla “metropoli arcipelago” e alla logica di prossimità verso cui spingono le tendenze sociali e urbanistiche più innovative, «gli uffici vedranno una veloce evoluzione: saranno sempre meno lo spazio di concentrazione di una somma di aree di lavoro individuale e sempre più luoghi di incontro e scambio di esperienze lavorative svolte individualmente e altrove, grazie alle connessioni digitali» (p. 146).
In un quadro in cui il ricorso allo smart working è più che raddoppiato nel corso della pandemia e in cui, secondo uno studio condotto da Wyser, il 60% degli italiani cambierebbe lavoro pur di non rinunciare a questa modalità lavorativa – dati che testimoniano la prossimità, negli Stati Uniti ancor più che in Europa, con il fenomeno delle cosiddette “Grandi dimissioni” –, una regolamentazione legislativa diventa urgente. Francesco Maria Spanò, attivo nel dibattito pubblicistico e politico sul tema, presenta in Lo smart working tra la libertà degli antichi e quella dei moderni un’analisi critica del “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile”, che si rifà al disciplinamento del lavoro agile della legge n. 81/2017, mostrandone i limiti ad esempio in merito alla rigida dualità casa/ufficio, a una non adeguata presa in carico dei rischi in termini di sicurezza fisica e psicologica dello smart working o ancora alla mancata ricezione della direttiva europea 2019/1158 sui lavoratori fragili. Del resto, se in ambito pubblico è malcelata la volontà della Pubblica Amministrazione «di ritornare a uno status quo ante smart working, cercando di ristabilire il più possibile l’“ancien régime” costituito dai classici canoni spazio-temporali del lavoro» (p. 87), anche gli interessi di edilizia e mercato immobiliare non residenziale spingono a una limitazione dello smart working. Il rischio è quello che il divario con altri Paesi europei diventi incolmabile, con tutte le conseguenze del caso, ad esempio in termini di “fuga dei cervelli”.
Alcuni nodi, seppur tematizzati nel volume, rimangono problematici, come il diritto alla disconnessione o la salute mentale legata a un modo di lavorare che rischia di avvicinarsi a quello freelance. Il grande merito di Lo smart working tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, però, è di inscrivere un fenomeno che all’apparenza potrebbe essere rilegato a una parentesi della storia recente (che dimenticheremmo volentieri, tra l’altro) nel quadro più ampio della vicenda moderna di valorizzazione dell’autonomia individuale, anche in campo lavorativo. Alle nostre società – alla riflessione collettiva e alla produzione normativa – il compito di armonizzare le libertà, regolamentarle e volgerle verso il più possibile verso il benessere e la giustizia, per evitare che autonomia voglia dire isolamento o prevaricazione.