No, non può essere stato solo un sogno. Poter conciliare il lavoro con la vita e non viceversa, liberare il lavoro e non liberarsi da esso, far crescere la produttività senza degradare le condizioni lavorative e ridurre i salari. Ovunque sta suonando la ritirata, «non fa per me», «funziona nelle grandi», «solo in alcuni ambiti», «così la gente non lavora». È evidente però una “controffensiva reazionaria” per rimettere tutto a posto. Per considerare una parentesi, quasi un incidente di percorso che quasi otto milioni di italiani abbiano sperimentato spesso qualcosa di molto lontano dallo smart working.Se c’è una cosa evidente con lo smart working è che rende ancor più visibile il contributo reale di ognuno. Lo scongelamento di due pilastri del lavoro: lo spazio (il suo luogo) e il tempo (i suoi orari) era già avviato da tempo anche grazie alla grande trasformazione digitale. Ora la pandemia e il conseguente lockdown lo hanno accelerato.
Pensare di tornare indietro come sostengono molte aziende e molti amministratori locali fa tenerezza, vuol dire tentare di inchiodare la gelatina a una parete. Servono investimenti gestionali, organizzativi e culturali ma il cambiamento è irreversibile. Primo, cercare di capire cosa è lo smart working. Non è il lavoro da casa. Lo stesso lavoro che si fa da casa è il telelavoro. Ho provato a dare qualche indicazione di percorso in una vera e propria guida, Indipendenti: guida allo smart working, edita daRubbettino. Lo smart working è un lavoro per obiettivi, è lavoro intelligente in cui si costruisce un legame di fiducia tra maggiore libertà del lavoratore in cambio di maggiore responsabilità. E per questo che la fiducia è fondamentale. Per questo le culture aziendali e organizzative basate sul “controllo”, oltre a soffocare la produttività, fanno perdere senso al lavoro e deprimono il benessere delle persone. Per questo bisogna cambiare tutta l’azienda, non solo chi lavorerà da remoto. Le tre grandi trasformazioni: digitale, demografica e ambientale trovano nel lavoro il maggior crocevia dei cambiamenti e allo stesso tempo una risposta progressista.
Lo smart working consente di rispondere meglio all’erosione che la tecnologia imprime dei lavori impiegatizi ripetitivi rigenerandoli su progetti e obiettivi, ai bisogni sociali di un Paese con la natalità del 1861 e in cui stanno raddoppiando gli ultra-ottantenni, e all’inutile inquinamento per la climatizzazione di immobili e laquotidiana migrazione verso il centro città e viceversa. Cari sindaci e ceo, non sforzatevi a rimettere inutilmente il dentifricio nel tubetto. Avete una grande occasione per riprogettare le città in modo intelligente. Non è intelligente né normale che ogni mattina un lavoratore arrivi da Saronno se il suo lavoro lo può fare da Saronno. Anche le città hanno i loro modelli di business e ripensarli è una grande occasione per rigenerare il tessuto urbano in modo sostenibile e ricco. Se un’azienda crede che il controllo e la presenza al lavoro siano garanzia di produttività, sostituite il vostro responsabile delle risorse umane con un cane pastore.
Il lavoro intelligente è un’occasione per ripensare l’azienda, guadagnare produttività e umanizzare il lavoro. È un percorso di innovazione e pertanto di partecipazione. Dove lo si è fatto, vincono l’azienda e il lavoratore insieme. Le tre grandi trasformazioni hanno trasformato il lavoro agile da opportunità a necessità urgente. Non possiamo scappare. Nessuno legge più nulla, allora andate nelle realtà dove lo smart working funziona e vi accorgerete di come per l’ennesima volta volete parlare di cose nuove che non avete avuto il coraggio di scoprire e capire. Guai a ogni fanatismo: in Indipendenti: guida allo smart working, edito da Rubbettino, indico i molti rischi da governare in un processo serio di innovazione. Oppure guardate le indagini vere, come quella di Fior di Risorse: la gran parte delle persone vuole tornare in ufficio solo per le riunioni strategiche e di coordinamento. Ha un giudizio positivo dell’esperienza soprattutto nelle aziende dove queste ultime sono state reattive al cambiamento.
Allo stesso tempo, le città sono cambiate centinaia di volte. Dimostriamo che il new normal era qualcosa di vero. Le città devono tornare luoghi di opportunità, piacevoli e vivibili. Non posso pensare che un sindaco, per non sentire le lamentele del tassista o del piccolo bar, non capisca che le città inquinate, intasate e affollate moriranno davvero. Servono città policentriche e verdi. Riformuliamo il piano periferie su queste basi. La città che vive non è solo la sua vetrina e capire il futuro del lavoro aiuta a ripensare un po’ tutto e a costruire ecosistemi forti, nuovi habitat per imprese e lavoratori. I lavori remotizzabili cresceranno molto, c’è un filone interessante diindustrial smart working, che grazie all’IoT (Internet of Things, il www delle macchine) che consente di remotizzare una parte del lavoro manifatturiero. La sfida è aperta, la coglierà chi non guarda al dopo, ma chi guarda oltre. La pandemia ha portato dolore e morte, ma ci ha portato dove eravamo già, facendo finta di nulla, nel ventunesimo secolo.
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