Recensione al libro “Il Mediterraneo e l’Italia. Dal mare nostrum alla centralità comprimaria”, di Egidio Ivetic, Rubbettino 2022.
Il nuovo volume di Egidio Ivetic, Il Mediterraneo e l’Italia, recentemente pubblicato per i tipi delle edizioni Rubbettino, ripercorre e riprende vari assi storiografici, offrendo delle prospettive di ampio respiro, di lungo periodo. Il Mediterraneo, in effetti, coagula diversi interessi di studio, necessariamente diacronici, che spaziano dalla storia antica alla contemporaneistica più spinta. Inserendosi bello spettro della storia globale, dove il punto di vista, per sua natura, deve essere posto il più in alto possibile, il lavoro di Ivetic accosta il vicino al lontano, la processione nautica, comune alla tradizione italiana sia religiosa sia laica, all’evento capitato altrove, nella consapevolezza che: «Il mare c’è, certo, ed è lì, ma è spesso solo uno sfondo. È lo stacco in una contemplazione, in un racconto, magari in un giallo mediterraneo, in una canzone, in un video. Mare che ha nomi diversi, si sa: Adriatico, Ionio, Tirreno, Ligure. E ha un unico cognome: Mediterraneo. Che è nominato molto, ma non si sa quanto davvero compreso e accettato per quello che è» (p. 7).
Il libro si sviluppa per 161 pagine lungo sedici capitoli, ponendo in evidenza, all’inizio, l’enigma, nella mente dell’autore già risolto e disvelato al lettore nient’affatto smagato, che «la Storia del Mediterraneo possa essere intesa solo in quanto una materia storica e umanistica da campus statunitense, da menù della cosiddetta offerta formativa, cioè un oggetto nel mercato della formazione umanistica, mercato ormai del tutto fluido, non gerarchico, oppure se sia il caso che essa venga considerata come una materia curricolare tra gli insegnamenti storici, quanto meno nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo» (p. 17). È una storia, quella del Mediterraneo, che rientra in un vasto alveo, poiché ogni singolo oceano è stato scandagliato non solo in profondità ma anche culturalmente, essendo portatore di specificità tipologicamente differenti. Il punto di forza del Mediterraneo è, però, una profondità peculiare, che attinge a piene mani dalla mitologia, dato che il binomio storia e leggenda, quando si parla di vicende marine, diventa inscindibile.
In merito all’Italia, lambita per tre quarti dal Mediterraneo, Ivetic osserva che: «Ed è entro la cornice di siffatta originale Geschichtsregion che si possono confrontare le dinamiche e i tempi storici del Mediterraneo con i tempi storici europei; millenni nel primo caso, secoli nel secondo caso. E questo a beneficio degli aspetti più strutturali. Può essere utile comparare quanto e dove, in Italia, siano state incisive le strutture tipiche (sociali, economiche, demografiche, ecc.), nel senso di maggiormente riscontrabili, del Mediterraneo, e quanto quelle più europee. Senza il timore di fare generalizzazioni. Ed ecco che la comparazione tra Mediterraneo ed Europa in seno all’Italia può diventare uno dei punti fondamentali per cui l’Italia merita di essere riconosciuta come tale nel contesto europeo, come regione storica affine, appunto, per significati e riscontri comparativi infra-europei e transeuropei ai Balcani, alla Scandinavia, all’Europa centrale, alla Russia» (p. 29).
Fa il punto, e non poteva essere diversamente, sul Mare Nostrum, allorquando gli antichi romani fecero del Mediterraneo, in virtù dell’evoluzione delle tecniche nautiche e nella piena comprensione, quale retaggio fenicio, dell’espansione per non soccombere, il loro punto di forza. Una preminenza che, gradatamente, si riscontra nel Medioevo, proclamandosi Ruggero II Rex Siciliae, Calabriae et Apuliae nel 1130, un regno, il suo, «che divenne il centro inespugnabile del Mediterraneo e che si estese ad Amalfi, Napoli e Gaeta. Il Mille porta dunque al rafforzamento militare cristiano, rispetto al califfato dei Fatimidi, ma anche, da quello che sappiamo di Amalfi, la prima città marinara italiana proiettata su scala mediterranea, all’incremento dei commerci latini, soprattutto italiani, nei porti arabi. E, stando ai pochi manufatti architettonici che abbiamo anteriori al Mille a Venezia, nei quali sono evidenti elementi decorativi arabi, oltreché bizantini, si capisce quanto vivo fosse lo scambio tra le parti. In sostanza, il consolidamento di un fronte tra l’Italia normanna e le terre di Bisanzio andò di pari passo con una sempre più decisa partecipazione e penetrazione dei commerci latini nel Levante» (pp. 47- 48). Un’osmosi acquea, un concentrato di microcosmi più o meno dialoganti, alla ricerca di un equilibrio precario: questa era la situazione nel Medioevo. Non poteva mancare il puntuale riferimento alle Repubbliche Marinare, poiché «Il duello tra Genova e Venezia avvenne in un Mediterraneo dove non c’erano altri rivali, se non Pisa, in fase discendente, e l’Aragona, ovvero la marineria catalana, in espansione» (p. 55). Chiosa con acribia Ivetic, spiegando la complessità, che: «Tra la Meloria e Chioggia c’è un secolo, 1284-1381, durante il quale fu raggiunto l’apogeo della marineria italiana. Fu l’apogeo del centro sul totale del Mediterraneo, come non si ricordava dalla Roma repubblicana. Ma, a differenza di Roma, le città marinare si limitarono ad agire sul mare, a perseguire il commercio e gli affari. Entrambe le città, Genova e Venezia, preferirono controllare contesti circoscritti, spesso insulari, come capisaldi nella navigazione. Tra le due città c’era ovviamente una differenza e lo si coglie nelle strutture di vertice e nelle scelte strategiche. Genova fu uno Stato in cui la corporazione mercantile prevaleva e che, alla fine, nel Quattrocento, sotto forma di Banco di San Giorgio, divenne un’istituzione parastatale ma indispensabile alla politica mediterranea, per il controllo della stessa Corsica; qualcosa che solo nell’East India Company trova un paragone. Le ragioni della mercatura e del profitto guidarono le decisioni politiche. Genova fu la più mercantile delle repubbliche marinare. Anche Venezia si nutriva di commerci, che la rendevano possibile, le permettevano di sussistere in un ambiente lagunare insidioso, ma il rapporto di Venezia con il mare fu più complesso. Il dominio del mare fu ereditato da Bisanzio e questo fatto fu ribadito ancora nel Seicento da Paolo Sarpi, quando si mise in discussione il diritto della sovranità sul Golfo, che era l’Adriatico. La milizia marittima, l’impegno militare al servizio di Costantinopoli, e gli accordi stipulati con i vari soggetti collocati sulle sponde adriatiche davano ai veneziani il senso di proprietà dell’elemento acqueo, del mare» (p. 56). Ben delineato è anche il quadro dei mutati rapporti di forza nell’età moderna, quando furoreggiava la pirateria moresca e/o saracena, che rendeva la vita (e la navigazione) difficile agli Stati italiani meno forti di prima. Ivetic, gettando uno sguardo ambivalente sulla penisola italiana, parimenti sul lato tirrenico ed adriatico (quest’ultimo studiato a suo tempo in modo magistrale da Elio Apih), riscontra che: «Civitavecchia e Ancona erano i due porti principali dello Stato della Chiesa e i suoi due volti marittimi, di Ponente e di Levante. Solo nel Settecento si può parlare di espansione, comunque più marcata nel caso di Ancona, porto franco dal 1732. La città conobbe una prosperità dopo due secoli di marineria regionale. Infine, Trieste, umile borgo marittimo, sotto sovranità asburgica dal 1382, ebbe l’opportunità di rinascere come porto franco dal 1719. La città moderna si ebbe nel Borgo Teresiano, dove confluirono diverse comunità straniere, ossia i presupposti per l’ascesa commerciale che si registrò cospicua dal 1760-70» (p. 69).
La laboriosità dello studio consiste anche nell’accumulo delle fonti, nel saperle, in un’impeccabile ermeneutica, districare per renderle fruibili, non sottacendo alcun aspetto. Per quanto concerne il Regno delle Due Sicilie, l’Autore osserva che: «La Real Marina del Regno delle Due Sicilie, o Armata di Mare, divenne tale nel 1816, con la ricostituzione e rinomina del regno. Entrambi i sovrani, Ferdinando I e Ferdinando II, si impegnarono a rafforzare la flotta; furono introdotti provvedimenti per aggiornare l’organizzazione della difesa marittima. Le navi furono impiegate per pattugliare l’esteso litorale, per contrastare le insurrezioni durante i moti del 1821 e per arginare la pirateria barbaresca. Nel 1828, due anni dopo la spedizione sarda, la flotta napoletana cercò di bloccare il porto di Tripoli ma senza successo, dovendosi ritirare. Un’azione congiunta con la flotta sarda fu effettuata nel 1833 contro i barbareschi di Tunisi, con un esito migliore. I commerci marittimi del regno di Napoli continuavano a essere di portata locale o al massimo mediterranea, separando le sfere d’interesse tra Levante e Ponente. E mentre ricerche recenti evidenziano i piani ambiziosi presso la corte borbonica per l’affermazione del regno delle Due Sicilie come una potenza regionale in seno al Mediterraneo, per cui non erano stati 75 estranei i contatti con la Russia, di fatto, anche nel caso di Napoli, l’Ottocento si profila come un secolo della tenuta, senza regresso né espansione» (p. 74-75).
A pochi anni dall’unità d’Italia, ovvero nel 1866, durante la Terza guerra d’indipendenza, le speranze della nazione rigenerata s’infransero nello scoglio, metaforicamente rappresentato dalla battaglia di Lissa, reminiscenza della verghiana lettura liceale dei Malavoglia. Tuttavia, «La coscienza marittima crebbe in Italia dal 1870 in poi. Sul piano culturale, tra gli autori che alimentarono una letteratura navalista, d’ispirazione anglosassone, spiccava Augusto Vittorio Vecchi, noto con lo pseudonimo Jack La Bolina» (p. 83).
Dopo le illusioni dannunziane e le tragiche esperienze fasciste, «Con le risoluzioni della conferenza di Parigi del 10 febbraio 1947 fu sancita la sconfitta dell’Italia. Le perdite sono note: tutta la Venezia Giulia eccetto Gorizia. Trieste nella zona A del suo Territorio Libero non era certo in Italia, come spesso si dimentica. Il Memorandum di Londra del 1954 fu un compromesso stipulato con la Jugoslavia. Del Territorio Libero di Trieste l’Italia si prese la zona A, amministrata dagli anglo-americani; la Jugoslavia ebbe la zona B, che già controllava. Fu una soluzione bilaterale, come del resto bilaterale fu Rapallo nel novembre del 1920. L’Italia, per due volte, nel cercare di risolvere la questione adriatica, dopo le sconfitte sui grandi tavoli diplomatici riuscì a spuntare qualcosa dagli accordi bilaterali. Parigi, Londra e infine Osimo, nel 1975, chiusero la questione adriatica, cioè la delimitazione tra Italia e Jugoslavia, con amarezze vissute da parte italiana, amarezze accantonate e poi dimenticate per decenni. Di fatto, senza la costa istriana, l’Italia aveva perso la preminenza nell’Adriatico» (p. 99).
L’Autore, ad ogni modo, va oltre, toccando i fatti salienti del XXI secolo e il rapporto centro-periferia, ricordando che Giuseppe Galasso «sosteneva che il Mezzogiorno italiano non fosse altro che il Sud europeo. Sud, certo, ma europeo. Non qualcos’altro. Galasso era scettico in merito a quelli che si sono annunciati in questi ultimi decenni come Mediterranean studies. Un calderone indefinito, difficile da raccordare con una narrazione che abbia un senso. Il senso è nella storia, per Galasso, ed è esplicabile attraverso lo sviluppo storico di un soggetto riconducibile a qualche istituzione» (p. 117). Oltre a Galasso Ivetic ripercorre le tracce di Fernand Braudel, chiudendo in bellezza.