L’antipolitica è ormai la cifra distintiva della nostra epoca. Dalla fine della Prima Repubblica si sono affermate forze che – usando l’antipolitica e aggiungendovi una buona dose di populismo – hanno conquistato consensi: da Forza Italia al M5s, passando per la Lega. Il tutto, oscillando fra il disprezzo della “Casta” (che è sempre riferita agli avversari politici, ovviamente, e rispetto alla quale i nuovi soggetti si proclamano estranei) e la messa in discussione della democrazia parlamentare, giudicata inefficiente, corrotta e – talvolta – persino inadeguata a rappresentare il popolo (la lotta dei primi Cinquestelle al divieto di vincolo di mandato è solo una delle tappe di una lunga storia, che ogni tanto contempla anche la favola bella dei “governi non eletti”, quando – come si sa bene – nessun governo è eletto direttamente, come spiega bene la Costituzione a chiunque abbia un minimo di alfabetizzazione). C’è chi, come Roberto Chiarini (nel suo “Storia dell’antipolitica dall’Unità ad oggi”; Rubbettino, 2021) superando il “disinvolto ricorso che si usa fare del vocabolo antipolitica con il facile impiego nella polemica spicciola dei partiti” cerca di individuare e analizzare i “troppi e diversi motivi e progetti che animano il rigetto della politica”, al di là del semplice “chiamarsi fuori”. Lo studioso individua due reazioni: una, di rigetto della politica, che può “per eterogenesi dei fini, consegnare il potere nelle mani non del popolo, ma di un capopopolo” o di un tecnocrate; un’altra, definita iperpolitica, “centrata sulla denuncia dell’effetto distorsivo della democrazia rappresentativa che prefigura un suo trascendimento” verso un atteggiamento rivoluzionario. In mezzo, un’infinità di sfumature. Inoltre, per Chiarini, “sotto la facile etichetta terminologica”, il lemma antipolitica “viene usato come comoda risorsa retorica per mettere fuori gioco i fautori dell’antipolitica, minandone la credibilità e la legittimità democratica”. La fase che viviamo, secondo l’autore, è quella del populismo antipolitico: il libro ne offre molteplici esempi, anche se – a nostro avviso – sarebbe stato interessante aggiungere al suo volume qualche pagina sulle forze di destra (Lega, FdI) che hanno connotati in parte tali (nel superamento della dialettica pluralista in nome di un’opposizione fra un popolo buono e i suoi nemici e nella critica ad un sistema in cui, tuttavia, il Carroccio è stato ed è forza di governo). Nel suo excursus, parte dalla debolezza della classe dirigente liberale postunitaria (che, però, non era solo “una conventicola di massoni”) e dalla difficoltà di governare un Paese avendo all’opposizione il mondo cattolico di fine Ottocento e un nascente movimento socialista (per non parlare delle altre forze antisistema). Il suffragio ristretto, la pubblicistica antiparlamentare, gli scandali e la stagione del trasformismo aggravano l’immagine della nuova classe dirigente liberale, che – superata la crisi di fine secolo – si misura con le aspre polemiche contro “Giolitti, ministro della mala vita” (come lo chiamava Salvemini) e con l’insorgere del movimento nazionalista e del dannunzianesimo, seguiti – dopo la guerra mondiale – dall’irruzione sulla scena dei grandi partiti di massa (i quali, però, si ritrovano inconciliabili e non alleabili sia fra loro, sia con i liberali) e dall’arrivo del fascismo. L’antiparlamentarismo del primo Novecento non poteva che alimentare l’antipolitica e darle dignità ideologica e motivazioni per agire: il risultato è che, ad un Parlamento accusato di impotenza succede un regime imperniato su un solo uomo (Mussolini) che abolisce il suffragio, salvo il plebiscito (del tutto strumentale) del 1934. Col dopoguerra, le polemiche già riservate alla classe dirigente liberale si ripresentano contro l’”esarchia”, cioè i sei partiti che partecipano ai governi della Repubblica nascente. Ad accusare, stavolta, è Guglielmo Giannini col suo “Uomo qualunque”; quel fiume carsico antipolitico – che secondo Chiarini è molto più forte a destra (senza necessariamente essere nostalgico) assume evidenti connotati anticomunisti – seguito da Guareschi, da Lauro, per certi versi da Merzagora, per finire col presidenzialismo neogollista di Pacciardi. Ma critiche al sistema vengono anche, in settori intellettuali, da personalità come Panfilo Gentile, Giuseppe Maranini, don Luigi Sturzo (questi ultimi, per la verità, impegnati soprattutto per attuare l’articolo 49 della Costituzione sulla democrazia interna ai partiti, per la moralità della politica, per la critica allo strapotere dei partiti) e dal “Mondo” di Pannunzio (che forse avrebbe meritato una citazione). Negli anni Settanta, la “maggioranza silenziosa” trova nuove sponde, ma la critica alla partitocrazia non è solo moderata: arrivano i radicali di Pannella, che ottengono sul quesito contro il finanziamento pubblico dei partiti – nel 1978 – il 43% di sì, partendo da un potenziale inferiore al 10%. Il resto – la stagione craxiana, la questione morale berlingueriana, Tangentopoli, il berlusconismo, i governi tecnici – che nel libro di Chiarini trova ampio spazio, è storia troppo recente per non suscitare interpretazioni tuttora controverse fra gli storici, i politici e i politologi. Una notazione va comunque fatta sulla disamina che l’autore fa della posizione dei Cinquestelle: perfetta metafora dell’antipolitica poi diventata “rivoluzione politica” e tentativo di passare dalla rappresentanza mediata a quella diretta, la storia del M5s è la parabola di un soggetto che – nato “contro” e per cambiare – si trova nelle stanze del potere e finisce per istituzionalizzarsi. Il libro di Chiarini è un invito alla discussione, al confronto sul merito del rapporto fra politica e antipolitica ma anche su molte delle nostre vicende nazionali e sull’interpretazione da darne. È dunque un punto di partenza per capire come mai quasi tutti i soggetti che avversano una “Casta” finiscono, prima o poi, per far parte di quella che la sostituisce. Infine, ci ha suscitato una domanda: quanta parte della “minoranza silenziosa” ha scelto l’exit per poi rifugiarsi comodamente all’ombra del potere di turno, salvo contestarlo una volta che non ne ha più goduto i benefici? Quanta di quella protesta del Nord lombardoveneto “bianco” contro la Dc che ha premiato la Lega già negli anni ’80 (e poi Forza Italia) è frutto – anziché dell’antipolitica tout court – del fatto che i democristiani non erano più in grado di garantire a settori della “società civile” e al mondo economico ciò che i territori chiedevano (federalismo compreso)?
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