dal Corriere della Sera del 30 Novembre
Tutto comincia molto tempo fa, quando nel Cinquecento gli architetti del Rinascimento mostrarono come il loro nuovo stile, fondato sulla proporzione delle facciate e su una decorazione dopotutto modesta, potesse venire esteso a tutte le case della città, anche alle meno doviziose. Se quella era una bellezza perfetta, il principe o il sovrano o lo stesso municipio avrebbero fatto bene a estenderne le semplici regole a tutte le case, affidandone il controllo al capo dell’ufficio tecnico o, in seguito, alle commissioni edilizie – che pure, oggi, scomparso il canone architettonico condiviso e aperto il campo alle più varie sperimentazioni, non hanno più un metro di giudizio certo e condiviso.
Quando nacquero le nazioni, agli inizi dell’Ottocento, alla ricerca di una indistinta identità nazionale tentarono di stabilire, invocando le proprie antiche radici, quale fosse il loro specifico stile architettonico, gli inglesi costruendo il palazzo del Parlamento in quello gotico e i francesi a Chambéry il nuovo palazzo municipale in quello di Versailles.
Comincia ad essere lo Stato a voler stabilire le regole estetiche alle città, per esempio imponendo a tutte con una legge urbanistica come dovrebbero pianificare il loro territorio – in Italia nel 1942 – e, così, cancellando quella loro fantasiosa autonomia che ci aveva dato le città la cui bellezza ammiriamo tuttora, ha aperto la strada alle squallide periferie europee degli ultimi cinquant’anni.
Ecco tuttavia che, se la cultura – non solo quella architettonica – è il tassello fondamentale dell’identità nazionale, va facendosi strada che compito dello Stato sia quello di intervenire anche nelle faccende estetiche, per esempio decretando nei programmi scolastici quale sia la letteratura nazionale che tutti debbono conoscere.
La cultura è campo di intervento dello Stato, il Kulturstaat domina le politiche nei Paesi di lingua tedesca, le istituzioni culturali vanno generosamente sovvenzionate e, ricordando quanto successo del decennio di Hitler, evitando di selezionare le tendenze dell’arte. Solo che questa politica non può che privilegiare quanto viene considerato alta cultura – teatri o musei – in base al principio di educare il popolo estendendone l’offerta, senza mettere al centro della politica culturale i desideri dei singoli cittadini, magari intrisi di una cultura popolare che per il Kulturstaat sarebbe proprio quella da ignorare, da correggere, da sradicare.
Per Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Kniisel, Stephan Opitz, che hanno denunciato questa tendenza in un libro, “Kulturinfarkt” (Marsilio, 2013), è proprio questa la deriva da rovesciare.
In Italia e in Francia l’identità nazionale è stata poi costruita avocando al dominio della nazione il suo intero patrimonio monumentale, sicché quanto le città avevano realizzato con la loro volontà estetica e con la loro determinazione e con le loro risorse nel corso dei secoli è stato letteralmente espropriato e la sua gestione affidata a una struttura ministeriale centralizzata, anche qui arbitra di quanto un intervento materiale sia legittimo o meno: e di questo continuano a dibattere quanti ritengono che la cultura sia una faccenda di esperti cui spetta spiegarla al popolo, un popolo irriverente che delle antiche cattedrali farebbe scempio.
Le voci critiche, che mettono in dubbio il principio che debba essere lo Stato a prendersi cura del patrimonio cosiddetto nazionale, sono in Francia, un Paese dove questa stessa nozione è nata nell’Ottocento, vivacissime, ed è di qualche anno fa un davvero cospicuo convegno su questo tema, “Le patrimoine culturel et la décentralisation” (atti editi a cura di Patrick Le Louarne, Presses universitarie de Rennes, 2011), che ha preso di petto la questione, aprendo un dibattito cui hanno partecipato gli stessi funzionari ministeriali, e non necessariamente per difendere le loro prerogative.
Qui in Italia la voce più recente e determinata è forse quella di Luca Nannipieri (“Libertà di cultura”, Rubbettino), che sottolinea anch’egli come il patrimonio sia una risorsa culturale non tanto quando una élite di esperti e di funzionari elenca e a suo modo tutela i beni, ma quando quegli stessi cittadini che li hanno a suo tempo realizzati, e che ne sono i legittimi eredi, ne rientrano nel pieno possesso, li fanno propri, riconvertendoli a nuove destinazioni che la loro comunità ritiene consone a dare loro una vita rinnovata: saranno loro stessi a decidere quale debba esserne il destino, perché i manufatti imbalsamati, che i sostenitori di una cultura alta vorrebbero vedere ammirati e condivisi dal popolo, appartengono prima di tutto proprio a questo popolo, e questo popolo è – in una società che vorrebbe essere democratica – il soggetto della cultura, tale soltanto in quanto condivisa dalle comunità di cittadini fieri e consapevoli del loro passato, ma proprio per questo gli unici legittimati a seguirne il destino.
di Marco Romano
Clicca qui per acquistare il volume al 15% di sconto
Altre Rassegne
- ilfoglio.it 2013.11.29
“Libertà di cultura” di Luca Nannipieri - Corriere della Sera 2013.12.02
Liberare la bellezza dallo Stato – Non funziona la tutela accentrata del patrimonio culturale
di Marco Romano