Il Cristianesimo ha spezzato i rapporti sociali obbligati, fondando un credo universale e rivoluzionario. Che si trova alle radici del pensiero nelle società libere. Un saggio edito da Rubbettino
La religione cristiana ha introdotto per la prima volta nella nostra storia l’idea dell’universalità o eguaglianza della natura umana. “Non c’è qui né giudeo né greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina: poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”: questo il fondamentale passo di san Paolo nella Lettera ai Galati (3, 28). A questo proposito, una grande personalità italiana del Novecento, Luigi Sturzo, parlava di tre novità introdotte dal Cristianesimo nella sfera sociale, e in particolare nello svolgimento della storia del pensiero politico: in primo luogo il Cristianesimo ha spezzato ogni tipo di rapporto obbligato fra religione, famiglia o tribù, nazione o impero, e, nel contempo, ne ha istituito uno su “base personale di coscienza”; in secondo luogo la Buona Novella è universale, poiché il Vangelo è destinato a tutti i popoli, a tutte le classi, senza alcuna distinzione etnica o sociale; in terzo luogo il Cristianesimo ha una fondamentale connotazione rivoluzionaria, poiché sovverte i valori tradizionali, in quanto nella sua prospettiva la personalità umana prende il posto dei gruppi sociali. Tutti questi temi vengono discussi da Danilo Breschi e da Flavio Felice in un dialogo ricco, intenso e serrato: “Ciò che è vivo e ciò che è morto del Dio cristiano” (Rubbettino editore). A questo dialogo farò riferimento, introducendo anche alcuni temi non trattati dagli autori.