Da Il Giornale del 2 marzo
«Utunum sint», come recita il motto dei gesuiti? E perché mai? I liberali sono… liberali. Ogni liberale si sente ed è cittadino, ma col diritto al proprio «hortus conclusus»: un giardino pieno di fiori, la casa colma di libri, sovrano nello Stato, mai automa ai suoi «ordini». Nel 1921 Giovanni Giolitti versò la quota al gruppo liberale-democratico della Camera di cui faceva parte. Sul pezzetto di carta «liberale» era cancellato. Rimase il «democratico». I liberali non erano più di moda. Quando nel 1924 Marcello Soleri gli mandò il conto della campagna elettorale, Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio, gli rispose che lo trovava eccessivo. Viveva della pensione di dipendente dello Stato. Secondo lui, come scrisse Nino Valeri e ricorda Fabio Grassi Orsini nel succoso profilo che ne ha scritto nel «Dizionario del Liberalismo» (*), l’idea liberale non ha bisogno di partiti, con tessere, distintivi, vessilli, parate, comizi, sedi, scrivanie e magari persino fasulli codici etici. La Libertà per Giolitti e la classe politica del suo tempo erano la Monarchia rappresentativa, le Camere, il governo, la macchina dei poteri pubblici, dalla capitale al più remoto comunello. Parafrasando gli antichi romani, «Ubi italianus, ibi Status». La libertà, dunque; e dunque il liberalismo era tutt’uno con l’unico Stato esistente, che era anche l’unico possibile: il regno d’Italia. Nel 1924 il regime era alle porte. Della sua pesante realtà oggi non si ha più percezione, perché la massificazione ha ispessito la pelle e i pori si sono chiusi all’ossigeno della libertà: «Intender non la può chi non la prova». Ma subito dopo il crollo del fascismo, nel 1943-1945, anche Benedetto Croce («un filosofo di buon senso» secondo Giolitti che lo volle ministro della Pubblica istruzione nel 1920-1921) pensava che ingabbiare i «liberali» in un partito non avrebbe giovato né ai suoi militanti né al liberalismo. Avrebbe immiserito l’Idea nella burocrazia di partito, come fossero comunisti, socialisti, democristiani, repubblicani, tutti gli antichi «settari», inguaribili nemici della Nuova Italia. Eppure tra defenestrazione di Mussolini, «un uomo solo al governo», e Costituente (1943-1946) dalla Lampada di Aladino balzò fuori il Partito liberale italiano. Era stato una fiammella prima dell’avvento del regime. Tornò subito minoritario. Ancora nel 1919-1921, pur divisi in varie denominazioni, bene o male i liberali aveva racimolato un 25% dei consensi. Alla Costituente tra Unione democratica nazionale e Blocco nazionale i «liberali» ottennero meno del lO%. Del resto non si erano messi d’accordo neppure sulla forma dello Stato, che è il cardine della Politica. Quanti erano i monarchici all’epoca? Secondo il referendum truccato del 2-3 giugno 1946 sommavano a dieci milioni e settecentomila. Quanti ne captarono i «partiti liberali»? Una infinitesima parte. Meritavano di vivere? Il Partito liberale campò un quarantennio con consensi elettorali modestissimi. Risucchiato dalla Democrazia cristiana nella battaglia contro il Fronte popolare socialcomunista, cui si aggregarono schegge dell’ex partito d’azione, nel 1948 raggranellò il 3,8 per cento dei voti. Balzò al 7% nel 1963: ultimo tentativo di bloccare l’avvento del centrosinistra organico e le sue derive successive (dopo averlo spasmodicamente voluto, Ugo La Malfa fu tra quanti subito pensarono che occorreva andare oltre, guardare al Partito comunista: come Aldo Moro). Ma in breve il Pli rotolò verso il baratro: l’1,3 nel 1976, l’1,9 tre anni dopo, il 2,9 per cento nel 1983… Era al lumicino. In Senato contò due soli seggi: Giovanni Malagodi e Giuseppe Fassino. Ma davvero in Italia i liberali erano così pochi? Il Pli tornò al governo nel pentapartito, che oggi può sembrare una formula strana, anche se, a ben vedere, il quadro politico-parlamentare-governativo attuale è molto più opaco di quello della cosiddetta Prima Repubblica. Il Partito liberale finì sommerso, come altri, dai marosi di Tangentopoli. Ma i liberali (anche senza aver letto Croce o chissà quali testi sacri nostrani e stranieri) in Italia erano tanto più numerosi di quanti lo votavano. Erano cattolici, socialisti, persino comunisti e chissà che cos’altro. Molti erano i monarchici che brancolavano in ordine sparso in attesa del Re Dormiente. Perciò, proprio quando il Partito liberale cessò di esistere, quasi per paradosso, nel 1994 il Polo della libertà e il Buon governo fermarono la vittoria delle sinistre, data per sicura sino a poco prima. L’Italia era divenuta improvvisamente liberale? Anno dopo anno quasi tutti i fondatori del Partito «d’antan» si spensero o passarono su altre sponde, persino nel Partito democratico. Il liberalismo però continuò a serpeggiare come fiume carsico.
Un «dizionario» del liberalismo
Venne il tempo di tracciare il bilancio storico delle idee e degli uomini. Proprio quando sembrava tutto fosse sommerso sotto le sabbie della Dimenticanza, prese corpo il «Dizionario del liberalismo italiano». Il primo volume passò in rassegna le idee, i movimenti, le epoche, le stagioni, gli eventi e le diverse forme del liberalismo, incluse associazioni composite, come la massoneria, che meriterà di meglio. Poiché le idee camminano con le gambe degli uomini, la seconda corposa parte dell’ Opera (mille e 200 pagine) passa ora in rassegna 404 personalità rappresentative dei molti modi di essere liberali in Italia (tutti maschi: e anche questo è motivo di riflessione). Da quando a quando? Vengono biografati quanti morirono entro il 30 giugno 2013, giorno di conclusione dell’Opera (l’esperienza insegna che dei viventi non si sa mai: basti, tra i tanti casi, un’anguilla come Giovanni Ansaldo). L’ abbrivio è più lasco, il primo Ottocento: la Restaurazione, quando, orfani delle illusioni coltivate nell’età franco-napoleonica, i patrioti italiani capirono di dover fare fuoco con la legna propria: organizzati in «sette segrete», valendosi di prudenti contatti con la Gran Bretagna, ottimisticamente considerata culla del liberalismo, con i francesi (Benjamin Constant, un nome tra i molti) che avevano osteggiato il Tiranno Napoleone I ma nei Cento Giorni avevano scommesso sull’Impero liberale e la Svizzera cara a Simonde de Sismondi, biografato con Giandomenico Romagnosi da Aldo G. Ricci. Furono gli anni di Federico Confalonieri, Silvio Pellico, Alessandro Manzoni… : liberali? Cattolici? Cattolici liberali? Intossicati dal retaggio illuministico? «Misteri del cuore umano» direbbe «don Lisander». Come nel Settecento dei Lumi, anche dopo la Restaurazione l’Italia ebbe essenzialmente due poli, con una differenza profonda, però. L’Illuminismo aveva avuto le sue «centrali» a Napoli (la città che catalizzava le menti migliori del regno: Galliani, Pagano, Filangieri…) e Milano. L’annessione del Lombardo-Veneto all’ Impero asburgico, con i processi e le condanne a morte e al carcere duro contro i dissenzienti, regalò al Piemonte la palma del liberalismo dell’Italia centro-settentrionale. Lo si vide dal 1820-21, quando Napoli e Torino ottennero la proclamazione della Costituzione spagnola del 1812. Era un prodotto di importazione e venne sconfessata dai sovrani (più nella Napoli dei Borbone che a Torino, ove a promulgarla con riserva fu il ventitreenne Carlo Alberto di Savoia, principe reggente tra Vittorio Emanuele I, che abdicò per non concederla, e Carlo Felice, che la rifiutò). Nel 1848-49 Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, Pio IX, gli Asburgo granduchi e duchi a Firenze e a Modena, e il Borbone di Parma regalarono al Piemonte il primato del liberalismo in Italia. Costretti dalle circostanze storiche e vestire i cappucci di cospiratori e a imbracciare i fucili di rivoluzionari, dopo le regie patenti del 1847 e dopo la promulgazione dello Statuto del 4 marzo 1848 nel Piemonte di Carlo Alberto e di suo figlio, Vittorio Emanuele II, i liberali insegnarono la via delle grandi riforme: libertà di stampa, Parlamento bicamerale con una camera elettiva e votazione dei consigli comunali e provinciali. Le guerre per l’indipendenza e l’unificazione degli italiani in un solo regno (1848-1860), un miracolo che sempre più appare somma di scommesse e di fortune, trasferirono il sistema sabaudo all’intera Italia. Ne nacque una dirigenza diffusa, migliaia e migliaia di persone le cui biografie sarebbe impossibile concentrare in un libro, se non rischiando di ripetere quanto già si legge per i suoi notabili nell’«Enciclopedia Italiana», nel «Dizionario biografico degli italiani» (sin dove è giunto), nella benemerita «Storia del Parlamento» in 24 volumi (Ed. Nuova Cei, fermata da un carica istituzionale proprio all’ultimo miglio, per motivi oscuri) e in altri repertori regionali e provinciali o di istituti storici vari, lasciando fuori la moltitudine, che è poi quella che davvero fece la grande storia, come insegnarono gli scrittori sommi, da Manzoni a Giosuè Carducci (che sintetizzò in due parole i millenni dell’«itala gente da le molte vite») e a Riccardo Bacchelli.
Vecchio Piemonte liberale
Chiuso questo secondo volume del «Dizionario del Liberalismo», si rimane come mirando le basiliche bizantine o le volte dei cupoloni barocchi: ogni personaggio ha la propria identità ma campeggia su un fondale, in un cielo dai colori vividi e accomunanti, ma non sovrastanti. Ciascun volto conserva la propria peculiarità. Ma il protagonista vero di due secoli, al di là delle comparse, è appunto l’ideale della libertà, anzi delle libertà, di generazione in generazione, tra conquiste ed errori, sino ai giorni nostri. Ne emerge il primato del Vecchio Piemonte, con le sue figure eponime: Camillo Cavour (firmato da Roberto Pertici), Giovanni Giolitti (di Fabio Grassi Orsini, direttore dell’Ispli, tenace animatore dell’ Opera con Dino Cofrancesco, Luigi Compagna, Francesco Forte, Giovanni Orsina e altri): non perché i piemontesi («buzzurri» vennero detti a Roma) fossero migliori, ma perché decisero per tutti. Erano la sintesi del Paese Italia. Torino, che aveva costretto all’esilio i «compromessi del 1821» e i cospiratori del 1830-1834, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, i Durando, Massimo Cordero di Montezemolo e Vincenzo Gioberti, teologo di corte, dal 1840 li richiamò in patria e nel 1848 accolse tutti i profughi politici che preferirono il Piemonte sabaudo a Londra o a Parigi, perché era da lì che bisognava ricominciare l’impresa: in Italia, per gli italiani, senza la protezione di potenze straniere e/o di internazionali. E chi rimase nelle carceri dei Borbone o di Pio IX sapeva che in Piemonte il fuoco covava sotto le ceneri. Lo si vide non solo nei mesi decisivi per l’unificazione ma nei decenni seguenti, quando alla presidenza del Consiglio ascesero uomini di tutte le regioni, dal toscano Ricasoli all’emiliano Minghetti, dai piemontesi Rattazzi, e Lanza e Depretis al pavese Cairoli, al siciliano Crispi e poi ancora Rudinì, palermitano, Pelloux, savoiardo, Saracco, di Bistagno vicino ad Acqui (sempre in attesa di una biografia vera come ripete il Premio AcquiStoria da anni), e ancora Zanardelli, bresciano, e Sandrino Fortis, Sidney Sonnino…via via continuando. Alle loro spalle una quantità di ministri, a cominciare da Michele Coppino, albese (biografato nel Dizionario da Valerio Zanone), all’ irpino Francesco De Sanctis, prescelto da Camillo Cavour, e diplomatici (il sub alpino Niccolis di Robilant e il siculo- normanno Antonino di San Giuliano), militari (come i Cadorna: quattro generazioni al servizio dell’Italia), scienziati, letterati, artisti… Il caleidoscopio delle biografie dei liberali pone alcuni interrogativi. Il principale scaturisce dal confronto tra il manifesto degli intellettuali favorevoli al governo Mussolini, che stava volgendo in regime fascista, capitanati da Giovanni Gentile, e quello degli intellettuali antifascisti, guidato da Benedetto Croce: Romolo e Remo di una stessa Lupa liberale (entrambi giustamente annessi nella Galleria del «Dizionario») o espressione di visioni radicalmente divaricate, contrapposte, fatalmente conflittuali. Fratricide? Quando il liberalismo dette davvero il meglio di sé? Con i governi di inizio Novecento presieduti da Giolitti, il più fattivo statista della Nuova Italia, o nella lunga «traversata del deserto», quando pochissimi antichi liberali si astennero da contaminazioni con il «regime»? Nel quindici anni tra il 1925 e l’intervento dell’ Italia nella seconda guerra mondiale in Italia non arrivarono affatto gli Hyksos: non ci fu alcuna invasione straniera. Gli italiani, molti liberali compresi (e anche socialisti, «democratici», come Ivanoe Bonomi, che nel «pantheon» liberale sta solo per generosa estensione del termine), si adattarono nella certezza di modificarlo dall’interno. Non previdero, non videro e quando videro decisero di non vedere quanto stava accadendo. Avvenne all’epoca, avviene spesso. Da quel quindicennio i liberali (che non vuol dire l’idea liberale) si riproposero con nomi antichi e forze nuove. E con grovigli irrisolti. Fu la «morta gira» come scrisse Marcello Soleri, a sua volta in attesa di una biografia scientifica, come del resto tanti e tanti liberali sinteticamente proposti dal «Dizionario». Il secondo interrogativo investe l’identità dei liberali e quanto ne venne e viene scritto: la loro posizione sulla questione istituzionale. Nel 1946 il partito liberale decise di non decidere sulla forma dello Stato. Fu l’annuncio della sua irrilevanza futura. Il Piemonte si divise tra Manlio Brosio, repubblicano, ed Edgardo Sogno, monarchico: un suicidio. Nel 1948 i monarchici votarono compatti per la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, killer della monarchia come, pur da lontano, don Luigi Sturzo, il «prete intrigante», come ne disse Giolitti. Morto Soleri, dopo la stagione di Luigi Einaudi, il partito espresse molte figure di alto valore culturale e morale e il liberalismo continuò a essere il metro di una dirigenza politica e culturale: risalendo alle sue sorgenti, esso promosse l’europeismo (erba rara: ma basti il nome di Gaetano Martino), la comunità internazionale, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le carte che via via nacquero in quel solco e le tante battaglie civili seguenti. Ma… come la nebbia estiva che rapida si dissolve, così il liberalismo divenne lieve rugiada di un Paese che confonde l’egocentrismo con la libertà e preferisce l’anarchia al grigio «senso dello Stato».
Liberali anche i re…
Quando si visita un palazzo storico, una galleria d’arte, un paesaggio disegnato con secoli di fatiche si esce ammirati dalle singole opere, dalle memorie di quanti vi hanno posto mano. Lo stesso vale per cattedrali, monasteri, certose. Non sempre, però, ci si domanda quale Principio abbia ispirato e reso possibile gli uni e gli altri. Come sarebbe impossibile un «Dizionario del movimento cattolico» senza i Vicari di Cristo, così la panoramica dei liberali italiani rimane incompleta se non comprende i re d’Italia. Con tutti i loro limiti, essi ebbero il merito storico di aver dato la patria al «volgo disperso che nome non ha». Tutto il seguito sta come il meno sta nel più. Lo intuirono i massimi spiriti di fine Settecento, che per comprensibili motivi cronologici non vengono ricordati nel «Dizionario»: Vittorio Alfieri, Carlo Denina, i piemontesi, che predicarono le «Rivoluzioni d’Italia», civili, umanistiche, altra cosa dalle «giornate parigine» del 1789-1794, spesso espressione di follia e foriere di sangue. Il Liberalismo italiano ebbe appunto il pregio di fondarsi sulla filosofia della storia che rifiuta gli eccessi e tutto comprende, perché la Nottola di Minerva si leva al tramonto e, come insegna l’Ecclesiaste, tutto è vanità. Compreso il sogno della libertà, ultima «ratio», sintesi di stoicismo e illuminismo: un viatico, come questa grande Opera orchestrata da Fabio Grassi Orsini, da meditare mentre l’Occidente si inabissa, smemorato.
(*) Il «Dizionario del Liberalismo italiano» (ed. Rubbettino) viene presentato il 3 marzo alla Camera dei Deputati ove furono pronunciati i «Discorsi della Corona»: un inno continuo ai principi di libertà, giustizia, incivilimento. L’ avv. Giovanna Giolitti, bisnipote dello Statista, presenzia per il Centro «Giolitti» (Dronero-Cavour), che ha pubblicato l’innovativa Opera «Giolitti al Governo, in Parlamento nel Carteggio» (5 volumi).
di Aldo A. Mola
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