Il 28 ottobre 1993 il Senato approvò in via definitiva e con maggioranza qualificata dei due terzi degli aventi diritto la riforma costituzionale che stravolgeva l’art. 68 che disciplinava la cosiddetta “immunità parlamentare”. La Camera si era espressa allo stesso modo e con la stessa maggioranza qualificata, rendendo così evitabile il referendum confermativo. La riforma era approvata in via definitiva, e l’immunità parlamentare, così come era stata sancita dai costituenti, non esisteva più. D’ora innanzi i giudici, per poter indagare su un deputato o un senatore, non avrebbero più dovuto chiedere il permesso al Parlamento. La locuzione “autorizzazione a procedere” scomparve dal vocabolario politico e istituzionale. Restò l’autorizzazione all’arresto (esclusi i casi di flagranza) e restarono pure l’autorizzazione alle perquisizioni domiciliari e alle intercettazioni.
Il libro di Giuseppe Benedetto (presidente della Fondazione Luigi Einaudi, fondata nel 1962 da Giovanni Malagodi) “L’eutanasia della democrazia-Il colpo di mani pulite” (Ed Rubbettino) con prefazione di Sabino Cassese, valuta comparativamente il regime delle garanzie per i parlamentari negli ordinamenti degli paesi occidentali e ripercorrere il dibattito che nel 1992-1993 ha portato a quella riforma.
Una riforma che, si è visto negli anni, ha reso i deputati e i senatori succubi della connivenza tra procure e macchina dei media: il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario. Da un lato, non vi è più alcuna protezione che garantisca l’esercizio della funzione politica più importante per la vita dei cittadini e, dall’altro, resta diffusa una fiducia nella superiorità morale del magistrato rispetto ai politici. Come se l’avere vinto un concorso garantisse una superiorità morale sul resto della società. Mortati, Calamandrei, Einaudi e gli altri padri della Repubblica vollero attribuire all’elettore la valutazione insindacabile dell’operato del politico. Ora l’attività politici e i partiti, formazioni centrali secondo l’architettura costituzionale, sono sottomessi ai giudizi di valore dei magistrati. Un avviso di reato, che può arrivare prima ai giornali che al destinatario, un’inchiesta giornalistica, spesso nata da verbali e altro materiale proveniente dagli inquirenti, possono mettere fuori gioco un politico, che poi magari, dopo anni, o decenni, risulta innocente.
Il fatto è che l’abolizione delle guarentigie volute dai padri della Costituzione è avvenuta sotto la spinta delle piazze forcaiole ma anche grazie anche alla debolezza e alla complicità della stessa classe politica. In primo luogo perché la corruzione e i finanziamenti illegali c’erano effettivamente e poi perché sarebbe toccato ai politici tentare una svolta e non consegnarsi nelle mani della magistratura.
Forse il giorno decisivo della mancata svolta fu 3 luglio del 1992, quando Bettino Craxi tenne un discorso alla Camera dei deputati in cui dichiarò: «buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo».
Nessuno si alzò e nessuno, nel drammatico biennio 1992-’93 avviò la necessaria stagione di riforme del sistema politico, e non solo politico (nel luglio Amato 1992 effettuò il prelievo del 6 per mille sui conti degli italiani, l’11 settembre la Bundesbank comunicò che non sarebbe più intervenuta per difendere la lira, ne conseguì un allargamento della fascia di fluttuazione della lira del 7%, con relativa svalutazione, per poi passare ad un crollo del 25%).
Rapporto tra partiti e società, funzionamento della macchina burocratica, spesa pubblica erano questioni che, in un momento di grave crisi politico-economica-istituzionale andavano affrontate. Così non fu. Le privatizzazioni, indispensabili non solo per garantire al paese un’economia di mercato ma anche per limitare le possibilità di trasgressioni della politica, furono effettuate solo parzialmente, per necessità di fare cassa, e in certi casi in modo sbagliato, la macchina pubblica rimase più o meno come prima, la moralizzazione della politica fu affidata a una casta che, tra l’altro, ha dimostrato di non essere immune dagli stessi mali che affliggono la politica.