Un itinerario omerico è quello delineato da Giuseppe Aloe nel recente romanzo dal titolo “Lettere alla moglie di Hagenbach” pubblicato dall’editore calabrese Rubbettino nel senso che il protagonista, tutto teso ad afferrare le suggestioni della realtà percorre strade inusuali in una Germania luminosa e acquatica alla ricerca di uno scrittore scomparso, Hagenbach per l’appunto. In realtà il percorso del protagonista è finalizzato alla ricerca del sé, ad afferrare il bandolo della matassa di un’identità smarrita per effetto della demenza senile che ne devasta la mente. Il tema della patologia mentale dovuta alla senescenza, le riflessioni sulle conseguenze della fragilità umana, il dissolversi del pensiero razionale accompagnano l’intera struttura narrativa ma non destano tristezza nell’animo del lettore né sentimento di compassione. Al contrario, il libro emana vigore e speranza per il futuro. A metà dell’opera difatti entra in scena Vanderlei, una prostituta sapiente – studentessa di giurisprudenza – che capovolge le parti, seduce con intelligenza e guida in maniera ferma l’anziano professore Flasherman verso la verità. Quale lettore arrivato a questo punto del romanzo non desidera partecipare agli incontri di Flasherman con la giovane e seducente guida spirituale avvolta come una dea in un lenzuolo arancione? Chi non desidera avere a fianco una bellissima Circe che decodifica spontaneamente gli snodi problematici dell’esistenza altrui? Ecco il fascino di questo romanzo che Giuseppe Aloe consegna ai lettori. È un’opera complessa che va assaporata lentamente e scoperta con sensatezza senza fermarsi dinanzi alle apparenti divagazioni che l’autore inserisce nella trama e che pure attraggono chi legge. La tematica della caducità dell’essere e quella del dissolvimento cerebrale trattate da Aloe sono peraltro di estrema attualità e compaiono sia pur con diversi esiti narrativi anche nelle recenti opere edite entrambi da Einaudi sia dello scrittore israeliano Abraham Yehoshua (Il Tunnel, 2020) e sia dell’autrice francese Delphine Du Vigan (Le Gratitudini, 2020) a significare che i fermenti che agitano la società, sia di carattere sociale che di carattere psicologico hanno valenza universale e stimolano dovunque la produzione intellettuale. Nell’opera di Aloe è comunque il senso di umanità che prevale sulla malattia, è la gratuità del gesto del compagno di viaggio che vince sul malessere e sul decadimento soggettivo. Aloe presenta inoltre uno stile originale, un linguaggio visionario e iperrealista unico nell’attuale panorama letterario che vale la pena di esplorare anche indipendentemente dal simbolismo di ciascun personaggio e dagli spunti offerti dalla trama dello scritto. Leggere per uno scopo puramente estetico, rinfrancarsi attraverso il nitore di certe frasi; anche questa può essere la finalità che il lettore, libero da vincoli, assegna in sorte al libro che ha scelto per tenergli compagnia.
Per spiegarle quale fosse la condizione della mia malattia le parlai di Giacomo Casanova e di come fu imprigionato nei Piombi. Nel suo racconto Casanova descrive, anche se brevemente, i due bracci della prigione. I Piombi, appunto, ricavati sotto il tetto del Palazzo Ducale, e i Pozzi, al piano terra. Nei Pozzi venivano incarcerate le persone di basso rango, mentre i notabili se ne stavano sui tetti a prendersi il gelo dell’inverno e l’arsura dell’estate. Il problema dei Pozzi era l’acqua alta, continuai. L’acqua alta e i topi che vivevano in quelle segrete. Spesso i carcerati dovevano rimanere in equilibrio su delle assi, cercando di non cadere nell’acqua. Molto spesso le forze non reggevano e scivolando giù finivano in bocca ai topi. Veramente io starei mangiando, mi fece lei. Anche io, risposi, ma è necessario che tu capisca la mia condizione. La mia malattia è proprio così. Sono continuamente su un’asse di legno e non mi posso muovere. Devo resistere a tutto. Alla fame, al sonno, alla voglia di alzarmi. Sono in ginocchio su un’asse e vedo sotto di me migliaia di topi grandi come mastini che non aspettano altro che un colpo di sonno o una debolezza per azzannarmi alla gola. Quando l’avevo vista al tavolo, mi ero accorto, che nonostante il trucco, aveva gli occhi ancora lucidi. Aveva pianto leggendo le lettere di Hagenbach. Si vede che hai pianto, non ti sei truccata bene, le dissi sedendomi. Cosa significano quelle lettere?, mi chiese. Le raccontai la storia di Hagenbach e di Dora. Di come lui aveva assistito la moglie passo dopo passo durante la malattia. Di come fosse rimasto convinto di una sua imminente guarigione, fino alla conclamazione dell’Alzheimer e anche dopo. Fino alla sua ultima visita in ospedale, dissi, poi è ritornato a casa ed è scomparso. E detto questo le diedi i giornali. Leggi qui, feci, c’è scritto tutto, anche se in maniera superficiale, ma i fatti ci sono. Prese a leggere gli articoli. Era svelta, passava da un giornale all’altro con una certa dimestichezza. Si vedeva che ci sapeva fare con la consultazione dei testi. Questa foto è vecchia?, mi chiese. Certo, dissi, la foto giusta ce l’ho io, continuai, e prendendola dalla tasca gliela mostrai. Questo è Hagenbach com’è adesso. Mentre osservava la foto iniziava a porsi delle domande. Lo vedevi da come atteggiava il viso e da due piccole rughe sulla fronte. Quando sollevò la faccia l’anticipai: lo sto cercando. Qui?, fece lei. Sì, qui, a Travemünde. Perché?, chiese. Perché qui ha incontrato Dora per la prima volta. A Travemünde?, fece lei. Esattamente, a Travemünde. E tu pensi che sia qui da qualche parte? Certo. Girò la testa verso la finestra, poi la riposizionò davanti a me. E perché lo cerchi? Bella domanda, le feci. Non lo so. È come se quelle lettere avessero innescato un mutamento genetico, dissi. Ho pensato che le avesse scritte anche per me. Per te? Cosa c’entri tu?, chiese Vanderlei. Qui mi presi una pausa e poi risposi: ho la stessa malattia della moglie. Fra me e Dora non c’è differenza se non che la sua è in uno stadio più avanzato. Io ci metterò ancora qualche anno, ma il mio destino è segnato.
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Ora devo andare, disse alzandosi da tavola. Mi alzai anch’io. Ti accompagno, feci. No, ci teniamo in contatto. Mi diede il suo numero di telefono, lei registrò il mio. Siamo a posto, dissi. No che non lo siamo, fece lei, e avvicinandosi mi baciò sulla bocca. Un bacio casto, di quelli che nascono dalla consuetudine. Un bacio serio. Grazie, le dissi, mentre l’accompagnavo. Facciamo così, disse fermandosi proprio fuori alla porta girevole, anche se non lo troviamo, io e te, ci rivediamo lo stesso. Per te va bene? Mi chiedeva se mi andava bene? Che domande. Certo che mi andava bene, mi andava benissimo. Ma questa volta senza pagare, aggiunse. Niente soldi. Niente soldi, ripetei. Sembravo un merlo indiano. Lei parlava e io ripetevo. Un cocorito dal piumaggio sgargiante. Poi chiamò un taxi, salì, parlò brevemente con il conducente, mi salutò e andò via. Ma così velocemente che per un tempo breve come il passaggio di un uccello migratore mi parve che tutto fosse irreale. Venderlei, la notte d’amore, il sogno, Slivo, i battelli, le lettere di Hagenbach, la colazione. Tutto nella mia mente, una visione che mi circondava e mi rivestiva come un caldo cappotto invernale.
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