Sulle tracce di Hagenbach. O di sé stessi. Indagine estrema, tra le pieghe di vite consunte. Perdita dell’io e dell’altro. Giuseppe Aloe ci fa camminare lungo un filo sottilissimo e fragile, sempre lì lì per farci afferrare dalla concretezza del reale o pronto a lasciarci cadere nella follia visionaria, gaudente e dolente, senza stacchi, senza cesure, in dissolvenza narrativa, linguistica e mentale. Lettere alla moglie di Hagenbach, il suo nuovo, atteso romanzo (Rubbettino, collana Velvet) è il racconto di vite intrecciate, esistenze sospese tra anelito vitale e ripiegamento interiore, tra lucidità e follia.
Protagonista è il professor Flesherman, criminologo di fama internazionale, cui viene diagnosticata una forma incipiente di demenza. Un fatto che suona come una condanna e che Flesherman contrasta con la forza dei richiami alla vita “normale”. L’occasione è un viaggio in Germania per lavoro. Lì, per caso, viene a conoscenza di lettere che lo scrittore Hagenbach, prima di scomparire nel nulla, ha inviato regolarmente alla moglie Dora, ricoverata con demenza in fase avanzata. Decide così di ripercorrere i suoi passi, andando a cercarlo.
«Le persone affette da demenza non si arrendono a questa cosa, la demenza non è il completo capovolgimento del ragionamento e l’assenza della memoria, al contrario, la demenza dà molti momenti di lucidità con degli sprazzi di delirio e, quindi, Flesherman sentendosi ancora forte vuole allontanare da sé il declivio, e in un gioco osmotico legge le lettere come come se fossero dirette a lui che sta andando verso quella stessa deriva» ci dice Giuseppe Aloe, scrittore raffinato, autore di romanzi di successo e finalista al Premio Strega 2012 con La logica del desiderio. «Flesherman non ha alcun motivo di cercare Hagenbach, però lo cerca. Come accade nelle nostre vite quotidiane, viviamo senza sapere perché lo stiamo facendo ma lo facciamo ugualmente. In lui la ragione principale è allontanare la demenza, più si sente vivo più allontana la demenza, nella sua idea».
Chi è Hagenbach? «Hagenbach rappresenta tutti gli scrittori in cui mi sono imbattuto nella mia adolescenza, e quindi c’è una parte di Thomas Mann, una parte di Kafka, poeti tedeschi, viennesi, svizzeri, che scrivono tutti in tedesco. È poi è quello scrittore che io ho pensato di essere e che è scomparso per molti anni. Perché io ho cominciato a pubblicare a 47 anni ma la prima poesia l’ho scritta a 5 anni e mezzo. Sono passati quarantadue anni, quarantadue anni in cui ho cercato di fuggire da questa cosa, perché, come dice Truman Capote, quando hai un talento, da una parte, hai una visione più ampia, dall’altra però hai una frusta con la quale continui a fustigarti e a me questa cosa non piaceva molto, quindi ho impiegato tutti questi anni a leggere e a scrivere delle piccole cose che però non potevano essere pubblicate. Solo dopo la morte di mia mamma, cui questo romanzo è dedicato, ammalata di Alzheimer e morta nel 2005, ho sentito che potevo concludere un romanzo. Così nel 2009 ho iniziato a pubblicare».
Lettere alla moglie di Hagenbach è infatti ricco di citazioni letterarie. «Sì, per esempio, Flesherman ritrova una foto di Dora, scattata a Travemünde, la località di vacanza dei Buddenbrook di Mann. Un po’ è come se avessi scritto un libro delle letture della mia adolescenza, che viene fuori dopo tanti anni. Amo molto gli scrittori di area tedesca. Mi sento europeo, a livello di ispirazione narrativa, e se penso agli italiani per semplificare posso dire di essere più vicino alla poesia di Leopardi che al romanzo italiano per eccellenza del Manzoni. Un filone sicuramente pessimista, riconducibile all’esistenzialismo tedesco di Kierkegaard. Se devo pensare alla mia formazione letteraria penso a Elias Canetti, Robert Musil, Robert Walser, Hebel».
La follia nel tuo romanzo appare come elemento vitale dell’essere umano, non disfacimento come potrebbe sembrare all’apparenza, bensì l’essenza dell’uomo. «Sì, è la teoria greca della follia, l’uomo è sano e folle, noi siamo sanità e follia. La follia ci viene a trovare, infilandosi tra i pensieri mentre siamo in un gruppo di amici, o quando sogniamo, quindi secondo me non esiste il famoso bilico tra follia e normalità, sono la stessa cosa e si susseguono una dietro l’altra. Credo, che negli ultimi decenni, la follia sia cresciuta ed è conseguenza di una società iper-razionale e ingabbiata. La mia scrittura, la ricerca narrativa, i miei libri, riguardano tutti questo punto: la follia. La follia declinata nell’amore, nel dolore, nella vecchia, nell’infanzia. Il mio prossimo romanzo sarà sulla follia del capire male una cosa, del misunderstanding, ascolti un discorso ma capisci una cosa diversa da quella che si stava realmente dicendo, e questo scatena una reazione che avrà conseguenze per tutta la vita. Come dicevo, stiamo prendendo una deriva iper-razionale, che ci fa dimenticare che siamo esseri umani. Quindi dico: attenzione, il mondo occidentale sta prendendo una deriva pericolosa».
Flesherman alla ricerca di Hagenbach incontra tanti personaggi particolari. «Incontra una prostituta dall’animo gentile, di grande intelligenza, Vanderlei, dal nome di un maratoneta brasiliano molto noto, incontra un giocoliere, incontra una coppia di norvegesi e pensa di essere la moglie del norvegese, poi sprofonda nel nero in cui lui è l’amico immaginario di Gregor Samsa, il protagonista della Metamorfosi di Kafka, e lui però vorrebbe essere l’amico immaginario della sorella di Samsa, perché Samsa è piuttosto noioso. In treno pensa di viaggiare con una sua vecchia fiamma, Odette, rischiando di risultare molesto».
Che genere di scrittore ti senti di essere? «Mi sento uno scrittore iper-contemporaneo, che vede in maniera “forte” le derive dei nostri tempi. E sono, sì, in qualche modo, uno scrittore mitteleuropeo, perché le mie ispirazioni hanno origini lì, ma tutto quello che io scrivo lo immagino a Cosenza, a casa mia, dove vivevo da ragazzino. Il balcone dove si affaccia Flesherman è il balcone di casa mia in Calabria. Le stanze del romanzo sono la camera dei miei, quella mia e di mio fratello. La mia immaginazione è lì, il mio dolore è lì».
Ti fa paura la follia? «La follia mi fa paura? Bella domanda. La follia mi fa paura se riguarda me. Avendo avuto periodi di grande depressione, molto tempo fa, ho capito come la mente sia labile, come si può scivolare facilmente. Bisogna imparare che questa parte depressiva e tendenzialmente folle fa parte di noi e, quindi, in qualche modo farci i conti e rappacificarsi. Quando tu ti rappacifichi con una parte di te che produce una follia o una malinconia molto forte ed evidente, riesci a capire che dietro tutto questo c’è la sensibilità per capire delle cose che normalmente non avresti capito, non saresti riuscito a capire. È un’ipersensibilità».
E la memoria o la perdita di essa? «Io ricordo tutto, ogni piccola cosa, ma Proust diceva che l’oblio aiuta a tenere vivi i ricordi importanti quelli della memoria involontaria. Allora se è l’oblio che li conserva bene vuol dire che è una cosa positiva, o meglio positiva e negativa al tempo stesso. Noi siamo pieni della retorica della memoria. Auschwitz va ricordato, quell’orrore va ricordato, ma ci sono cose che potremmo benissimo dimenticare. Io amo gli smemorati come amo i muti, la parola nasce dal trauma, gli altri animali non parlano, la parola è il segno di un grande dolore».
Cosa vorresti dire di Lettere alla moglie di Hagenbach ai lettori? «Direi che è un bel libro, quasi ho pensato di non averlo scritto io. Io scrivo come in trance. A volte scrivo delle cose che troveranno solo molto tempo dopo la loro collocazione. Nel 2006, per esempio, scrissi le lettere senza capire il perché, solo dopo dieci anni ho capito che le avevo scritte per questo romanzo. Oppure lavoro per anni una storia nella mente e poi scrivo in poco tempo. Sì, direi, leggetelo! È bello nonostante lo abbia scritto io».
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