La memoria è ciò che ci rende consapevoli di noi stessi e umani, non nel suo esercizio di accumulo di nozioni o informazioni ma intendendola come capacità di mantenere traccia delle sensazioni e delle emozioni.
Cosa ci accadrebbe se quel pezzo di noi svanisse a poco a poco? È la memoria il fulcro su cui si costruisce un noir di quelli autentici. Un romanzo senza risoluzioni, senza certezze e rassicuranti investigatori che trovano le risposte che ci aiutano a dormire.
Lettere alla moglie di Hagenbach (Rubettino editore, pp. 194) di Giuseppe Aloe racchiude la morte e la vita nella stessa trama, ma non come ci si aspetterebbe di vederle raccontate. Il nucleo del racconto ci presenta un criminologo di fama internazionale, il dottor Flesherman, che decide di partire per scoprire se il corpo senza testa ritrovata a Berlino è di Rosa Luxemburg. Flesherman parte nonostante abbia scoperto di avere la demenza senile e che la malattia può avere degli sviluppi imprevisti.
Mentre è a Berlino sarà attirato da un caso di scomparsa, nessuno ha più notizie di Karl Hagenbach – scrittore e studioso dell’inconoscibilità del mondo. Nessun detective della nuova generazione di supereroi con il sorriso magico, da regalare a favore di telecamera, avrebbe abbandonato un caso come quello della Luxemburg per seguire la sparizione di uno scrittore.
Flesherman non ci pensa due volte e si ritrova a precipitare nel mondo di Hagenbach e della moglie Dora, affetta dall’alzheimer. Come potrà riuscire lui, costantemente sul filo della sua stessa scomparsa, a ritrovare qualcuno?
Non aggiungo altro e il resto lo scoprirete leggendo un noir a cui dovrete concedere fiducia. Non è un libro per i lettori del giallo della domenica. È un testo per chi vuole porsi delle domande e non trovare risposte. Non per tutti, insomma.
Conoscendo meglio l’autore forse poi sarà anche più semplice seguire i suoi racconti. Giuseppe Aloe è un cosentino classe 1962, è un pensatore di Cosenza vecchia. Per chi non la conosce, questa città del Sud Italia ha la sua anima più autentica nel centro storico, un misto di vicoli di case sgarrupate e palazzi signorili, bar centenari e il teatro. È un mondo che ne contiene infiniti altri e li mette a convivere strade parallele e viuzze in salita.
Tra i libri di questo scrittore da menzionare ci sono di sicuro: La Logica del desiderio (Giulio Perrone editore) finalista al Premio Strega nel 2011; Non è successo niente (Giulio Perrone editore 2009); e il giallo Ieri ho chiamato Claire Moren (Giulio Perrone editore 2019).
Visto che Lettere alla moglie di Hagenbach ha lasciato aperte molte domande abbiamo pensato di chiedere chiarimenti ad Aloe. Chi meglio di lui può introdurci nella sua fantasia e nella sua analisi del caso della scomparsa.
La memoria è un tema ricorrente nella tua scrittura. In questo romanzo ne tratti l’aspetto più inquietante: il dissolversi dei ricordi. In Ieri ha chiamato Claire Moren invece usavi due personaggi con un rapporto molto diverso con la memoria: uno che vuole dimenticare e l’altro ossessionato dal ricordare tutto…
Una persona che non ha più memoria perde la consapevolezza di sé, questa è una cosa che la rende, per i nostri canoni, un non individuo. È un travisamento della realtà. Le persone come Flesherman o Dora (la moglie di Hagenbach) possono vivere in un ambito di maggiore felicità.
Da cosa nasce in te questa convinzione, così lontana dal modo in cui siamo abituati a vedere i malati e chi soffre di demenza o Alzheimer?
Dall’elaborazione che ho fatto, e che sono convinto sia ancora in corso per me, della malattia di mia madre. È sempre stata una donna molto energica, ma con una vita tragica e con un sentimento del dolore molto forte che l’accompagnava. Nel momento in cui lei si è ammalata ha recuperato la sua giovinezza e le persone care che ha perso molto presto nella sua vita. La perdita di memoria era positiva in lei, ma non lo era per noi.
Come ti è venuta l’idea di un noir con un detective che sta scomparendo?
Quindici anni fa, quando è morta mia madre ho scritto le lettere di Hagenbach, il corpo di missive che il marito scrive a Dora. Solo molto tempo dopo mi è capitato per le mani un articolo in cui si ipotizzava il ritrovamento del corpo di Rosa Luxemburg, un personaggio molto evocativo per me. Rosa Luxemburg rappresenta la beffa della storia, lei è la chiave di ciò che poteva essere. La violenza però l’ha piegata e ha forgiato una storia differente. Questa cosa per me è indigeribile.
Si può leggere nella fine e nella cancellazione che ha subito nell’immediato l’utopia del mondo della Luxemburg un parallelo di ciò che provoca la malattia?
Sì certo, anche la malattia ha una violenza che cancella la vita di queste persone. In più l’essere senza testa della Luxemburg corrisponde alla paura di Flesherman di perdere ciò che lo rende umano.
Perché raccontare tutto sotto forma di noir?
Mi serviva il ritmo del noir, la sua velocità. In più questo genere è la perfetta rappresentazione della vita perché la vita è una suspence continua. Noi abbiamo solo l’illusione di poter vivere, ma chi è veramente realistico sa che la vita può finire da un momento all’altro. Il giallo ti fa capire questo.
Io direi che è più il noir a fare questa operazione, il giallo ti concede quella finta tranquillità della risoluzione
È vero, noi siamo sospesi. Siamo degli allegoristi e l’allegoria è per sua natura troncata, è un frammento.
Il tuo investigatore parte per seguire un caso da prima pagina e poi si lascia attrarre dalla vita. Questo è un elemento che spinge a riflettere sull’idea di successo e di realizzazione personale che viviamo. È come se ci raccontassi che la vita è da un’altra parte?
Flesherman vuole distrarsi dalla sua malattia, lui va alla ricerca di Rosa Luxemburg per sfuggire a quello che sta sparendo. E lì succede l’imprevisto. Quella persona scomparsa che attira in modo così prepotente il criminologo è una metafora della vita che ti accade mentre fai altro. Ho voluto anch’io seguire gli andamenti con libertà assoluta.
Anche le donne del tuo romanzo sono libere?
La prostituta Vanderlei credo sia la donna più intelligente che abbia mai potuto descrive. È un personaggio che ha piena cognizione di sé, di quello che vuole fare di quello che vuole raggiungere. Così come lo è la moglie di Flesherman, anche se in maniera diversa.
E Dora?
Lei è la concretezza, l’amore. Lo si capisce da come chiede al marito: “Hai soldi?”. Questa è stat anche l’ultima domanda che mi ha fatto mia madre, un quesito che credo nasconda in realtà l’interrogativo più vero: “Sei pronto ad affrontare la vita?”. È la domanda fondamentale che ogni donna fa ai figli e agli uomini della propria vita.
La suspence dei tuoi romanzi non è quella classica da noir, non si teme la morte ma lo svanire. O almeno è quello che leggo quando scrivi: “Mi sto inoltrando nello strato profondo della paura… Il luogo che non conosce innocenza”.
Flesherman, quando si perde in Potsdamerplatz, non ha più punti di orientamento. È disorientato perché deve ripercorrere i momenti della vita che ha vissuto, deve attraversare una frontiera di sé stesso che fa paura. È un terrore effettivamente legato al perdere sé stessi più che la vita.
Chiudiamo con l’onesta della promessa. Un concetto che mi ha colpito molto, richiama una purezza e una lealtà ormai lontane e desuete per i tempi contemporanei …
Il punto è la resistenza. La questione è la vita, e i dolori che ti provoca, e quale resistenza hai per rimanere uomo o donna. Nel momento in cui perdi la resistenza entra in gioco la follia, nel senso greco del termine. Quell’essere sani e folli nello stesso tempo. Quando succede qualcosa il margine della sanità svanisce e la sagoma della follia entra dentro di noi, che è quello che porta ad avere un rapporto con la vita meno compromesso dalle regole sociali.
Flesherman è un folle di Aloe e Aloe è in qualche modo il più autentico folle che potete incontrare nei salotti letterari di questi tempi.
Il crimine continua ad esercitare un fascino quasi perverso sulle persone comuni. Lo dimostra l’enorme successo del mercato di libri, film e fiction e di altre produzioni di genere. C’è chi sceglie i racconti con personaggi grotteschi, omicidi seriali, inserti di sesso e droga, chi opta per più sottili thriller che disseminano indizi e che hanno come obiettivo instillare una crescente sensazione di pericolo man mano che si prosegue nella lettura. Ci son poi delle soluzioni che sono pura violenza.
E poi c’è altro, ci sono gli scrittori che usano i casi per investigare in modo più profondo città, società, ipocrisie o gli uomini e le loro emozioni. Giuseppe Aloe nel suo romanzo Lettere alla moglie di Hagenbach ha scelto questa strada, meno battuta ma che produce sensazioni più durature. Un modo di vivere in modo più autentico e meno conforme alle regole imposte, come i suoi personaggi.
MilanoNera ringrazia Giuseppe Aloe per la disponibilità
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