La prima lettera di Antonio a Sonia porta la data del 24 dicembre 2020. Non una data casuale, ma la vigilia del Natale, che per i cristiani non è un condensato commercial-fiabesco di luci, suoni e fantasie colorate: è l’evento di fede dell’Incarnazione, la Parola che si fa carne, il Dio cristiano che si “impasta” con la carne fragile, sofferente e martoriata dell’umanità di ogni tempo. Il tempo liturgico in cui inizia questo dolce corrispondenza epistolare tra Antonio e Sonia dà, in un certo senso, una chiave di lettura a queste pagine attraverso le quali ciascuno di noi può rileggersi, interrogarsi, mettersi in discussione: seguendo l’itinerario di Antonio e Sonia, la fede “esce dal tempio”, abbandona “una visione grandiosa e trionfante di Dio” per contemplare “il Dio delle cose e delle esperienze minute”, che intreccia “con pazienza l’alto e il basso”, la paglia delle nostre vite con la sua gloria.
Per una serie di circostanze, mi sono trovato a leggere questo libro di cui Antonio mi ha fatto gratissimo dono, tra due date significative: il 4 e l’11 ottobre. La festa di S. Francesco d’Assisi e la memoria di San Giovanni XXIII che coincide con l’apertura del Concilio Vaticano II, di cui quest’anno ricorrono i sessant’anni. Forse una mera casualità, come la prima lettera di Antonio che porta la data del 24 dicembre. Ma in queste due date ho colto due chiavi di lettura di questo libro, che può farsi compagno di viaggio non tanto di ogni uomo credente ma di ogni uomo pensante, per citare il cardinale Martini: per chi è sinceramente in ricerca, per chi si lascia inquietare ogni giorno dal “non credente che è in me” (per citare sempre Martini), per chi è in crisi senza saperlo, per chi non si chiude né in un dogmatismo formale che tappa le ali né nel rifiuto “integralista” di ogni apertura al Mistero che interpella l’uomo.
La seconda data, fine conclusione della lettura del libro. L’11 ottobre. E prendo in prestito all’immensa eredità del Concilio, alcune frasi con cui si apre la “Gaudium et spes”: “nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dei discepoli di Cristo” che, qualche anno dopo, Paolo VI avrebbe rielaborato con la celebre espressione “Chiesa esperta in umanità”. Leggendo le lettere di Sonia e Antonio, il cammino di fede è anzitutto un cammino di umanità nel quale davvero c’è dentro tutto: il dubbio, le ferite della malattia, la paura della morte, il limite, quelle ombre di noi stessi in cui neppure noi riusciamo a capirci qualcosa. L’epistolario di Antonio e Sonia, quindi, da uno stimolo a riprendere in mano il nostro personale cammino di vita e di fede, acquista una dimensione comunitaria, oserei dire di Chiesa. Una Chiesa che sia esperta di questa umanità che non ha nulla di particolarmente drammatico o straordinario, ma è semplicemente umanità. Con la consapevolezza tutta conciliare espressa da Sonia con queste parole: “il Signore, fuori dal recinto della sua Chiesa, corre a cercarsi i figli con la stessa premura a te riservata in parrocchia”.
Il Dio ricercato, sognato e pregato in queste pagine, per citare un noto cantautore italiano, è un Dio simpatico. Un Dio “che dilata l’anima e l’affila in profondità”. Che nel fondo – lì dove solo Egli può raggiungerci – rivela lo splendore, il valore di ogni vita, il miracolo del quotidiano.
Salvatore D’Elia