… poi in questi giorni ve ne parlerò più diffusamente. .. Non resisto però a tacere davanti al libro che mi guarda e mi dice: dai, forza, parliamone… prima devo prepararmi e riflettere, due cose ciononostante le dico subito. È giusto e confortante trovare nelle prime pagine l’idea di fondo, espressa dalla curatrice e traduttrice Valentina Vetri: Chesterton apprezzava tantissimo Shakespeare e non ne faceva un uso strettamente “culturale” (egli non fu mai contaminato da questa aberrazione di tenere separate vita e lettere, pur essendo un intellettuale, perché ebbe in dono l’idea sacramentale della realtà), ma ne traeva un beneficio spirituale, come succede con tutte le “grandi opere di genio”, “perché si rivolgono certamente a tutta l’umanità, facendo risuonare quel che tutti abbiamo nel profondo e in cui tutti ci riconosciamo”. Poi ne godeva, così come succedeva per Dickens (sopra tutti gli altri), Stevenson, Browning, Chaucer e così via. L’idea che la poesia e la letteratura in senso più ampio possano estrarre dall’anima dell’uomo la sua identità e la facciano risuonare (mi piace questo verbo) è molto chestertoniana; il nostro Gilbert diceva che in certe epoche sono i poeti che ci richiamano alla nostra vera natura. Com’è che diceva Chesterton da qualche parte: “Non nego che debbano esserci i preti per rammentare agli uomini che un giorno dovranno morire. Dico soltanto che, in certe epoche strane, è necessaria un’altra specie di preti, chiamati poeti, per ricordare agli uomini che ancora non sono morti”. La curatrice ci ricorda che Chesterton si nutrì di letteratura, sin dalla più tenera età, ed è emozionante attraversare Kensington e Notting Hill sapendo che Gilbert le ha attraversate con un libro in mano, che il suo babbo, Mr. Ed, gli ha fatto vedere le più belle opere d’arte, dandogli un nutrimento che poi ha prodotto il nostro Campione. Ma, come vi ho detto, parlerò più avanti ed in maniera più compiuta di questa felice scelta dell’editore Rubbettino di collazionare gli scritti “shakesperiani” di Chesterton.
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