I.
Che lo si voglia ammettere o non, Marco Laudato – narratore interno protagonista del romanzo Tiro al piccione, uscito per la prima volta nel 1953 da Mondadori in «La Medusa degli italiani» (e anche, nello stesso anno, se non ricordo male, da Trevi, nella collana «I Miti», in un’edizione non autorizzata, ancora ristampata nel 1974) – è l’alter ego dell’autore, Giose Rimanelli.
Come quest’ultimo, nato il 28 novembre del 1925, ha ancora diciassette anni quando in Italia, a partire dall’autunno del 1943, la Repubblica sociale italiana, altrimenti detta Repubblica di Salò, spacca il paese e le coscienze in due. Fare una scelta è già dura, fare la scelta considerata giusta dai vincitori futuri, con meno di vent’anni, lo è ancora di più. Meno di vent’anni significa – a quell’altezza temporale – aver conosciuto solo il fascismo imperante, in Italia, specie se abiti in un paesino, Casacalenda, di una regione del Sud, il Molise, e se appartieni a una famiglia sostanzialmente povera, che non ha strumenti e che spera di poterti tracciare un altro orizzonte di vita in seno a un seminario, a un collegio di religiosi; un collegio che non è un rifugio per antifascisti ma un luogo in cui un primo tempo della seconda guerra mondiale, dal 1939 al 1943, viene quasi congelato in un lustro di canti, preghiere e studi. Quando ne scappi, insieme al tuo migliore amico, Guido, non hai punti di riferimento utili e il conflitto mondiale si è come raddoppiato, in Italia, in seno a una guerra civile che ne accompagna la fine tra autunno 1943 e primavera 1945. Quel che capita ai due amici, ai due «abati» (p. 248), come li chiama il barbiere del paese, è significativo: Marco scappa al Nord, a Venezia, aiutato da due tedeschi che gli danno un passaggio su un camion, mentre Guido, poco dopo, da tedeschi in più tragica e distinta ritirata, sarà ammazzato proprio mentre al saluto mortale dei tedeschi tenta di sottrarsi.
II.
E dire che forse sarebbe bastato farsi prendere dal paese (dal ‘ritorno’ al paese dopo cinque anni di ‘clausura’), dal sole e dalla carne di Giulia, da quella sensualità così ben descritta da Rimanelli e apparentemente capace, da sola, di sovrapporsi al contesto di cui si è detto e che, fra tedeschi in ritirata e più o meno giovani italiani inconsapevoli, con o senza divisa, ci fa pensare a una parte di L’impero in provincia, del 1945, di altro, grande scrittore molisano, Francesco Jovine (1902-1950). Ma se a Jovine basta un racconto, nella magnifica silloge citata, a Rimanelli non basta quasi un romanzo di duecentocinquanta pagine. Perché?
Perché Itaca qui deve sfumare e sfumarci, sbiadire e sbiadirci, e, nel bene e nel male, permetterci di accettare la guerra: «un mostro solenne, fermo sul mondo» (p. 52). Per questo, il «sole» del paese è «debole alla fine di settembre» e «le case» sono spinte «nell’ombra» (p. 29) e anche Giulia «andava ad appiattarsi nell’ombra» (p. 24). E il «buio» è sostantivo (più che aggettivo) che domina il libro fin dall’inizio (con almeno una trentina di occorrenze), insieme ad «ombra» (una ventina) e superato soltanto dall’aggettivo (più che sostantivo) «nero» (una quarantina), che è veicolo di cromatismo relativamente scontato ma mai banale nel dettato testuale: Giulia «nel buio era un’ombra nera, una pallottola di carne nera raggomitolata su se stessa» (p. 33); e mentre le «carezze» della giovane donna lo «invitavano a dimenticare tutte le cose» – in seno a un oblio e a una stanchezza morali che sono un portato storico e letterario di quegli anni (dal fascismo a quanto ne sa intuire e scrivere Cesare Pavese [1908-1950] per esempio) – «sulla strada, ripresero a rotolare i camion» (ibidem).
E rotolano a tal punto, i «camion», che l’unico modo di andarsene dal paese pare sia proprio il «rotolare» via, dentro uno di quelli. Rotolare via, da qualche parte, nel buio, senza sapere davvero dove, ché nel paese non c’è nessuna forma di riscatto possibile: soltanto le mosche di brancatiana memoria ci sono e, quando Giulia finisce per schiacciarle, indispettita, solo una virgola di sangue sul muro ne resta, forse quale icona prospettica di ben altro sangue versato nei mesi seguenti. Perché non c’è né ci sarà Eden nel microcosmo del paese, come testimonia, in buona parte, il finale stesso del romanzo di Rimanelli, e una formazione, ammesso e non concesso che di formazione si tratti, sta sicuramente fuori.
III.
Venezia non è più quella repubblica, quell’entroterra generoso che negli anni Trenta del Seicento offre asilo a un personaggio da romanzo di formazione come Renzo Tramaglino. La Venezia di Marco Laudato è «nebbia», «foschia» (p. 49), ci si finisce arruolati senza neanche un amen e si scopre l’inverno e che, per l’appunto, «la guerra era la guerra […] un mostro solenne, fermo sul mondo»:
Era venuto l’inverno. A Venezia la vita non aveva volto. Pioveva senza violenza tra la nebbia dei tetti e quell’acqua non ingrossava i canali. Venezia era una città nordica, persa nel mare, dove nessuno urlava, nessuno si uccideva e le passioni, le liti, non scendevano in piazza. Anche la guerra non si sentiva. «Il Gazzettino» riportava poche notizie e gli apparecchi passavano alti, nella nebbia. Venezia non era nei loro obbiettivi. Ma una notte bombardarono Mestre, ruppero l’acquedotto di Porto Marghera e i veneziani restarono senz’acqua da bere. Fu allora che «Il Gazzettino» disse che il morale dei veneziani rimaneva alto, come alto era il morale della superstite popolazione di Mestre. L’articolo di fondo invitava tutti a rimanere calmi, tranquilli. La guerra era la guerra.
Nella nostra isola vicino all’idroscalo stabilirono un servizio di avvistamento. Notte e giorno gli aerofoni scrutavano il cielo. Era un cielo buio, denso, dietro il quale la Guerra era un mostro solenne, fermo sul mondo.
Dopo Natale ci radunarono una trentina e ci fecero andare al pontile di legno sul quale la sentinella passeggiava col fucile in ispalla. Ci fecero scendere nel motoscafo. Quando arrivava il motoscafo sapevamo la via che ci facevano fare. Quelli che restavano ci gridarono coi berretti in mano: «A noi, camerati!».
«All’anima dei morti vostri», brontolò un biondo in fondo alla barca. Pensai che fosse uno dei tanti giovani rastrellati. Poi la barca si mosse schizzando schiuma e ci scaricò a Mestre. Qui ci aspettava un camion con rimorchio. Quando il camion partì il biondo scoppiò a piangere: si nascondeva la faccia nelle mani e io vedevo come le sue spalle sussultavano. Gli altri cantavano.
Verso sera cominciò il vento. Ci grattava sulle groppe. Apparivano montagne con la neve e freddi paesi. Tutto il giorno si corse per le strade. Ci portarono in un luogo tra Custoza e Villafranca, ancora nel Veneto, fra Tedeschi d’una batteria. […] I Tedeschi apparvero sul limitare del campo dove il camion s’era fermato, e ci fecero gesti con le mani. Quando saltammo a terra e il camion ripartì, fra i Tedeschi si fece avanti un ufficiale italiano, alto e con un labbro leporino, il quale ci venne incontro e ci disse nel freddo: «Ciao, ragazzi!» (pp. 51-52).
Quel «Ciao, ragazzi» è tutto quello cui si ha diritto e suona un po’ macabro. Il ricordo di Custoza (e del giovane tamburino sardo deamicisiano) e Villafranca basta a far presente al lettore (un minimo avvertito) che si sta dalla parte sbagliata perché è andata così: perché la Storia tutta, con la S maiuscola, e la storia intima, di ciascuno di noi, è anche, che lo si voglia o meno, un gran «rotolare», da un «camion» all’altro. E tuttavia c’è uno scatto: di stare proprio coi Tedeschi fino all’ultimo non se ne parla, un po’ perché è troppo pericoloso, un po’ perché non ti danno un fucile, perché non si fidano, perché sei comunque un ragazzo e un soldato di serie b, sei un italiano, non conosci la loro lingua, ecc. Pochi argomenti giustificano l’ultima deriva, l’ultima fuga in avanti, la guerra contro i partigiani, l’ultimo passaggio da un camion per approdare ai «battaglioni M», tra la fine della prima e l’inizio della seconda parte del romanzo (all’incirca fra p. 60 e p. 92). Anche se qui il fato, il destino, il caso, non dispone sempre e solo di «aiutanti», magari ambigui ma in fin dei conti generosi e simpatici, tipici di una fase di transizione spentasi, non troppo lentamente (e simbolicamente) peraltro (come si è visto), alla fine dell’estate e al principio dell’autunno del 1943. Cominciano a saltare fuori per davvero e a farsi riconoscere per quello che sono, neri più di tutto il resto, gli oppositori, le spie, cioè i delatori, i traditori veri.
Milano non è Venezia, anche per Marco Laudato. E già Venezia, del resto, pur restando una città ‘tollerante’, non appare certo, in Giose Rimanelli, come in quel divertissement della memoria di un suo coscritto, Giorgio Vecchiato (1925), Con romana volontà. Quando eravamo una maschia gioventù (2005), che racconta molto dopo e comunque già da dentro, con toni disincantati ed esilaranti, episodi del Ventennio lagunare filtrato da un punto di vista di ben altro giovane, borghese e liceale, che sceglie un altro anno cerniera, il 1942, anno drammatico ma non ancora ‘apocalittico’, specie nella sua prima parte.
Ma è vero che Venezia, nell’autunno del 1943, può ancora essere una ‘leggera’ porta dell’inferno: è come se non bastasse salire da Sud a Nord per accettare la guerra, il contagio. Bisogna quasi rifare una sorta di movimento risorgimentale al contrario e procedere da est a ovest e passare dal Veneto alla Lombardia e al Piemonte per entrare nel vivo di un conflitto civile che farà di Marco un «piccione» cui i partigiani tireranno con i loro fucili: il piccione d’argento del berretto della divisa dei «battaglioni M».
Ma chi fa transitare infine, Marco Laudato, verso questo approdo?
Prima di rispondere a questa domanda, è giusto ribadire, sottolineare che l’approdo in questione sembra davvero figlio di una geografia nazionale italiana percorsa a ritroso, come in un conto à rebours e in una sorta di annullamento di qualsiasi quiete periferica. Perché è proprio nei paesi, anche nei paesi «lassù», anche nei paesi che sono «un punto nella Siberia», magari anche sotto un «chiaro di luna» (pp. 165, 178, 193), che si scarica infine la tensione (e la repressione) dei veri centri del potere più fine a sé stesso, più intolerrante e malvagio, quello di Milano, per l’appunto, con il suo ‘omino di burro’, con il suo Kellerman.
IV.
L‘omino di burro’ di Marco Laudato, il suo conduttore (senza camion, ed è significativo, ché la fuga sta sostanzialmente per finire) si chiama Keller, anzi, per la precisione, Kellerman, «oriundo tedesco» (p. 67). Lo prende poi in consegna il sergente Sala, che lo fa vestire «con gli abiti del vero italiano […] come Kellermann» (p. 76) e diventa «l’angelo nero» (p. 77) di Marco, quello che non esiterebbe a sparargli al primo tentativo di ulteriore e ormai impossibile fuga. Keller, intanto, è già ritornato a fare l’‘omico di burro’, cioè è sparito e, nella lontananza, sembra quasi un personaggio simpatico:
[…] Ma Kellermann non apparteneva a quella caserma e io lo cercai invano per giorni e giorni. Mi sentivo infelice per non poterlo rivedere. Avrei fatto volentieri due chiacchiere con lui. Tuttavia m’era vietato metter piede fuori caserma, perché ero sempre sorvegliato speciale. Qualche volta pensai alla fuga. Nella piazza d’armi giravo intorno alle mura che davano sulla strada traversa a via Vincenzo Monti. Sul muro c’erano cocci di bottiglia; bisognava scalarlo e saltare dall’altra parte. Ma fra i rottami delle macchine e le stalle dei muli giravano sempre sentinelle armate. Tuttavia, una notte che corremmo sul luogo del bombardamento a rimuovere le vittime, nella confusione tentai di squagliarmela. Sentii la voce dura del sergente Sala alle spalle:
«Se ti muovi ti sparo!»
Lo guardai e vidi che diceva sul serio.
«Non volevo andarmene», dissi.
«A me non la fai, ragazzo. Ti conviene essere ragionevole». Il sergente Sala era il mio angelo nero (pp. 76-77).
Dal macabro «Ciao, ragazzi» al «Se ti muovi ti sparo!» e «A me non la fai, ragazzo», dall’essere arruolato ancora in abito civile (e in una compagnia e batteria di Tedeschi) all’indossare la divisa del vero italiano, pronto a partire fuori Milano, su per le valli, e in altre città e regioni, a dar manforte ai «Battaglioni M» nella lotta ultima contro i partigiani, e in definitiva contro sé stessi, sembra non ci sia davvero che un altro breve passaggio in camion, stavolta decisamente militare e ‘rotolante’ non più dal Veneto alla Lombardia ma dalla Lombardia al Piemonte, e da Milano a Vercelli.
Così, quel fascismo che tanto voleva riprendersi e sublimare l’italiano Risorgimento non farà che decostruire lo stesso in seno a un viaggio obbligato che non offre formazione se non in una decostruzione del carattere nazionale ostentato peraltro dalla propaganda della Repubblica sociale italiana sino alla fine della guerra (e anche dopo). E così Marco sembra davvero compiere una sorta di viaggio contro l’identità italiana: un viaggio che è forza e limite del libro di Rimanelli, specie in termini di ricezione, in quel secondo dopoguerra che i partigiani fecero letterariamente loro (in altro ‘senso unico’, e pur con eccezioni ragguardevoli) e in cui soprattutto furono i lettori italiani a voler continuare a riconoscere un iter aggregativo e non disgregativo, un portato identitario e retorico positivo, quasi un peccato nazionale senza la colpa (sempre e solo altrui, sempre e solo minoritaria).
NOTA
1 Questa particolare recensione, in forma di micro-saggio, sarà poi pubblicata, via una rivesione fatta di altre note e approssimazioni, in Alex Bardascino, Luciano Curreri, Non di sola destra. Sei ‘solisti’ della Repubblica delle lettere (1953-1986), Soveria Mannelli, Rubbettino («Zonafranca»), nel novembre del 2022.