“Difficilmente il Mezzogiorno è stato attore di cambiamento e gli scrittori, siano essi testimoni dei fatti relativi al 1861 o lontanissimi promulgatori di una memoria condivisa, hanno reagito narrando il sentimento di delusione, la condizione di sconfitta, la dimensione di rimpianto verso quel che sarebbe potuto essere e non è stato”. Su ilLibraio.it la riflessione di Giuseppe Lupo, in libreria con il saggio “La Storia senza redenzione – Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli”
Se Manzoni fosse nato in qualche regione del Meridione anziché in Lombardia, non è detto che avrebbe messo in bocca all’Anonimo la famosa pagina, redatta in stile secentesco, che apre I promessi sposi: «L’historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo…».
Chi viene dal Mezzogiorno è abituato a interpretare la Storia in tutt’altro modo: non è una guerra contro il tempo, non è il braccio di ferro tra memoria e oblio, ma la certificazione di un fallimento che da individuale, familiare presto diventa questione di tutti.
Tranne pochissimi casi che appartengono a un certo Novecento, dal giorno in cui il Sud è entrato in contatto con il processo di Unificazione nazionale – da quando cioè la Storia ha impresso un’accelerazione impensabile a un che appariva irrisolvibile e su cui addirittura avevano discusso Dante e Petrarca – la risposta che la letteratura ha dato indica una precisa direzione: difficilmente il Mezzogiorno è stato attore di cambiamento e gli scrittori, siano essi testimoni dei fatti relativi al 1861 o lontanissimi promulgatori di una memoria condivisa, hanno reagito narrando il sentimento di delusione, la condizione di sconfitta, la dimensione di rimpianto verso quel che sarebbe potuto essere e non è stato.
Nel bene e nel male, la grande letteratura meridionale, che è nata con Giovanni Verga e che nel suo solco ha proseguito nel Novecento fino ad approdare agli anni Duemila, rimane legata a questa prospettiva, avvitandosi in un labirintico conflitto con la Storia, che non viene quasi mai interpretata come luogo dove si afferma la modernità e dove la condizione umana trova il proprio riscatto. Non a caso, nei decenni finali dell’Ottocento e anche nel Novecento si è parlato a lungo di Risorgimento tradito o di Risorgimento incompleto: due formule che stanno dietro ai grandi capolavori della letteratura siciliana come I Viceré (1894) di Federigo De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Luigi Pirandello, Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Il Risorgimento, naturalmente, è uno dei tanti momenti che attestano questa visione corrosiva e piena di sfiducia. Nel corso dei decenni successivi se ne contano altri, per esempio il passaggio dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine o l’emigrazione verso il Nord industriale, durante il periodo della ricostruzione. Anche su questi temi la risposta degli scrittori meridionali appare poco convinta. Spesso il nuovo genera sentimenti di diffidenza e sicuramente, in numerosissimi casi, è assai più probabile che gli scrittori abbiano cercato una soluzione alle inquietudini del cambiamento rimpiangendo epoche che non c’erano più, il tempo di una innocente felicità che, se non si sta attenti, può diventare una clamorosa trappola: quella del malinconico ritorno al paese d’Arcadia.
Resta da chiederci come mai gli scrittori meridionali hanno manifestato un tipo di atteggiamento fino al punto da giungere ad affermare che la Storia (il luogo per eccellenza delle trasformazioni) sia qualcosa di statico e addirittura, alla luce delle tante delusioni, non conceda a nessuno la speranza di redimersi dal punto di vista umano e sociale.
È possibile che a monte di tutto questo abbia agito una lontanissima suggestione. Dobbiamo compiere un salto all’indietro e arrivare al Decamerone: un capolavoro che è stato espressione di una Napoli angioina (Boccaccio è vissuto per molti anni presso la corte francese a Napoli), ilare e mediterranea, scaltra e mercantile.
Ma la cultura angioina è durata meno di un secolo, spazzata via dagli Aragonesi. I quali si sono comportati da viceré, cioè da esecutori di ordini. Dal narrare angioino il Sud è approdato al narrare aragonese, dal racconto di fantasia al racconto di fatti nudi e crudi. Questa operazione di capovolgimento trova legittimazione in Giovanni Verga, il grande tronco da cui prende vita la narrativa meridionale nella contemporaneità e che in termini non soltanto simbolici significa l’egemonia della scrittura notarile sulla scrittura visionaria, la vittoria dello scriba sul profeta.