da Il Gazzettino del 15 Dicembre
Altroché se conta, la storia. Prendi il favoloso Statuto d’autonomia della Sicilia, strappato all’Italia dagli indipendentisti in armi, prima che Costituzione fosse, e perciò inespugnabile. O quello del Trentino-Sudtirolo, anch’esso quasi un’indipendenza, protetta dall’accordo con Vienna, cui De Gasperi volle a qualsiasi prezzo strappare una terra austriaca che all’Austria voleva tornare. Conta, la storia: l’indipendentismo francofono ha valso alla Vallée d’Aoste un’autonomia ben più sovrana di quella concessa alla meno belligerante Sardegna, e il patriottico Friuli Venezia Giulia attese vent’anni per vedersi riconoscere una specialità da poveracci ma pur sempre migliore del nulla concesso al Veneto, che in questi decenni ha imparato sulla propria pelle cosa significhi vivere fianco a fianco con Regioni “speciali” dotate di poteri e di finanze immensamente superiori.
Sarebbe logico pensare che la differenza tra Regioni “speciali” e Regioni “ordinarie” dovesse diminuire man mano che ci si allontana dalle situazioni politiche che ne determinarono l’instaurazione. Nell’Italia “federale” ci si aspetterebbe che tutte le Regioni fossero gradualmente portate allo stesso, ampio livello di autogoverno e di responsabilità. Invece, accade il contrario. I governi – tutti i governi, di sinistra e di destra, di Prodi e di Berlusconi con la Lega dentro hanno sempre aggiunto poteri, autonomie e denari alle Regioni più speciali, togliendo e tagliando alle Regioni ordinarie e a quelle – come il Friuli – in cui la specialità è meno garantita.
Così la distanza tra “ordinarie” e “speciali” aumenta: il governo Letta, proprio in questi giorni, arricchisce ancora l’autonomia di Bolzano e Trento, e invano la Confindustria di Belluno protesta per l’aggravarsi di una concorrenza sleale ormai insostenibile. È proprio un libro che fa male quello scritto, fresco fresco, da Pierfrancesco De Robertis, responsabile della redazione romana del Quotidiano Nazionale: «La Casta a statuto speciale», edizioni Rubbettino. Conti, sprechi e privilegi delle Regioni Autonome, promette il sottotitolo: De Robertis si dev’essere divertito come un matto a scriverlo. Ma anche tralasciando le ormai classiche barzellette siciliane sulle dinastie di pubblici dipendenti e forestali senza foreste, leggendo delle spese, anche di buongoverno, che Trento e Bolzano possono permettersi coi soldi delle tasse, che a differenza dei nostri restano sul territorio, vien da chiedersi perché mai un veneto che ha mal di denti si paga il dentista, mentre a Trento lo paga la Provincia. Proprio così: cure gratis per tutti fino a 15 anni ed anche oltre, se i redditi non sono alti. Per carità, mica è spreco: è diritto alla salute. Ma perché dev’essere garantito solo a Trento?
E lo sapevate che in Val D’Aosta c’è il “bon de chauffage”? È francese e vuol dire: buono riscaldamento. Perché in Vallée fa freddo: e dunque se il reddito è sotto i 65mila, la Regione rimborsa 450 euro per le spese di riscaldamento. Ma perché, nel Bellunese non fa freddo? A Roma non risulta: le Dolomiti erano una barriera corallina, ci sarà un clima tropicale, giusto?
Ma i capitoli che fanno davvero rabbia sono quelli sui sindaci e sulle imprese. Finché le Regioni autonome pagano il diritto alla salute, le badanti agli anziani, le giornate di lavoro alle mamme che assistono i figli, il contributo prima casa alle giovani coppie, è una cosa. Ma a Trento si rimborsa in base al reddito anche l’Imu e l’Irap. De Robertis enumera impietosamente gli argomenti con cui Bolzano e Trento attirano ogni anno aziende su aziende strappandole al Bellunese: aiuti per l’export, per la partecipazione a fiere, fondi di garanzia prestiti, partecipazione pubblica agli investimenti, detassazione alle start-up, contributi alle piste da sci e al rifacimento degli alberghi. Per Belluno, è il colmo: qui aziende e famiglie sono strangolate dalle tasse, e queste tasse indirettamente finanziano la concorrenza trentina e sudtirolese, che così attira più turisti e costringe le imprese bellunesi a chiudere. In pratica, nota De Robertis, i bellunesi si pagano il licenziamento. Questa è l’Italia!
Infine, la chicca meno nota: i sindaci d’oro. In Italia fare il sindaco di un piccolo Comune è volontariato, si arriva a 3mila euro lordi solo se il Comune passa i 30mila abitanti. Ma il sindaco di Hafling, in Sudtirolo, paesino di 700 anime, si portava a casa nel 2012 ben 3.189 euro. E il suo collega di Proveis, 270 abitanti, più di 2mila. «Se Brunico invece che in Alto Adige fosse in Veneto il sindaco dovrebbe rinunciare al 60% dei 9.315 euro lordi» che incassa. E in provincia di Bolzano (500mila residenti) ci sono ben 116 Comuni, e in Trentino (480mila) altri 217. Di accorpare i piccoli Comuni, qui, non se ne parla.
Ma 333 Comuni non bastavano: mentre in Italia sí chiudono le Comunità Montane, lì inventano le Comunità di Valle. Solo a Trento sono 16, con 16 palazzi, 16 presidenti, 16 consigli. «La Comunità della Val di Non ha un’assemblea di 96 componenti, di cui 57 eletti a suffragio universale». In tutto, le Comunità impiegano 500 dipendenti, bilanci da decine di milioni. La piramide amministrativa è di Cheope: in Trentino c’è la Regione, la Provincia, la Comunità di Valle, il Comune, la circoscrizione, e infine le 99 Asuc (Amministrazione Separata Usi Civici). Sei livelli, fantastico, in una Regione che non arriva al milione di abitanti. Scusino, non si potrebbe tagliare un po’ questi costi? Così, per educazione: per non esibire tanto lusso in faccia alle Province confinanti, quelle senza autonomia, senza soldi e senza diritti.
di Alvise Fontanella
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