Tornato a Riace per assistere al funerale della madre, Luigi Vizzaro, giornalista di mezz’età, una relazione sentimentale senza particolari emozioni, scopre da una lettera che lei ha lasciato di essere stato cresciuto dai suoi zii: «Mia madre non era mia madre, ma solo la sorella di chi mi ha tenuto in pancia e mi ha messo al mondo. Anche se ho chiamato mamma solo lei, anche se non ho avuto altra madre all’infuori di lei, ora devo configurarla come una zia. Mia madre era (…) un’altra donna, di cui l’unica cosa che conosco da due giorni è il nome. E mio padre non era mio padre, con l’ulteriore complicazione che, a quanto pare, nessuno saprebbe chi sia il mio vero padre.»
Comincia così, con l’aiuto della sorella Rosaria e della compagna Elisa, la ricerca di Dora Lucà che porterà Luigi alla scoperta di un segmento pressoché sconosciuto della recente storia italiana: ovvero che tante calabrotte, a metà degli anni sessanta, hanno sposato contadini delle Langhe, trasferendosi al Nord.
Seguendo una serie di indizi, Luigi raggiunge infine la madre che lo aspettava da tempo: «Non ho dubbi che sia lui, il figlio che attendo da quarantasette anni, così come è evidente che lui sia certo d’aver trovato la madre perduta, la donna che l’ha sfiorato appena il giorno d’inverno in cui è venuto al mondo. Ho sempre saputo che sarebbe arrivato, che lo avrei rivisto, anzi semplicemente visto. Era scritto nelle pagine della vita, era impresso nel mio destino, sono partita sapendo che un giorno lontanissimo, ormai vecchia, avrei abbracciato il figlio a cui rinunciavo.»
Giovane gelsominaia, Dora era rimasta affascinata da un altro Luigi, «un bracciante come tanti», che «aveva studiato un po’ di più, aveva letto un po’ di libri, aveva frequentato qualche riunione ed era diventato una sorta di sindacalista: quegli scioperi li organizzava lui. (…) Era tutto quello che volevo diventare e mi veniva di prenderlo così, subito, senza dover passare dallo studio, dallo schermo dei compagni maschi, dalle lotte con mio padre: il mio primo e più duro padrone da cui liberarmi. Ecco, lui era la libertà, lì accanto a me, la libertà che sapeva di aglio, di sudore, di vita»
L’uccisione dell’uomo da parte di uno sgherro pagato dal padre di Dora chiude tragicamente la sua brevissima stagione d’amore. Le lascia una gravidanza, nascosta dalla famiglia e risolta cedendo il bambino alla sorella primogenita, sposata e ancora senza figli, e accettando l’offerta del bacialè Angiolino d’un matrimonio con il piemontese Giovanni Verderame. Gioan, «figlio di contadini, voleva essere padre di contadini ma non trovava moglie, (…) temeva di essere l’ultimo nome di una catena di generazioni che si perdeva nel passato più remoto. L’ultimo, il maledetto, l’incapace.» La loro vita insieme, contrassegnata da molto lavoro e poche parole, da una sorta di rispetto sobriamente affettuoso, non aveva cancellato le ferite di Dora, ma aveva reso i suoi giorni dignitosi, facendole provare qualche piccola felicità a cominciare dalla nascita delle due figlie e della nipote, attivista anti Tav, che porta il suo nome. Il ritrovamento della madre porta a Luigi un nuovo equilibrio. Trova in lei e nelle nuove sorelle una famiglia: una famiglia che comprende, anche quelli che aveva considerato l’unica sorella e l’unico fratello e comincia seriamente a pensare di crearne una nuova con Elisa.
Scritto dal collettivo Lou Palanca, costituito da Fabio Cuzzola, Valeria De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri e Monica Sperabene e pubblicato da Rubbettino nel 2015, Ti ho vista che ridevi è un romanzo a due voci, quella di Dora e quella di Luigi, con inserti quasi saggistici sulla vicenda delle ragazze del Sud emigrate per sposarsi al Nord: «Calabrotte, calabresi, Napoli, eravamo delle donne oneste, pulite, lavoratrici che qui hanno trovato una vita e ci si sono arrampicate sopra. Un’altra vita. L’unica possibile.»
Straordinaria la storia dell’organizzatore di matrimoni calabro-piemontesi, Angiolino Gabetto, «bacialè di ultima generazione, specializzato in unioni dell’altro mondo, organizzatore della felicità in tempi difficili, salvatore della razza longarola, benefattore della femmina calabrese, angelo custode della mia terra», «non solo abile speculatore di sentimenti e di bisogni ma anche pratico e rispettoso dell’umanità degli umili.»