Ricercatori e fotografi americani nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta
Amerikaner in den Alpen: è questa la concisa definizione coniata da Norbert Ortmayr per quegli studiosi anglosassoni che – tra gli anni Settanta e Novanta – lavorarono nell’arco alpino italiano e in quello svizzero: antropologi famosi come John Cole, Eric Wolf e Robert Netting, o meno conosciuti come Frederik Bailey, Sandra Wallman e Patrick Heady (Ortmayr 1992; Krauß 2018: 3-4). Negli stessi anni anche le Alpi francesi erano percorse da ricercatori stranieri: Harriet Rosenberg, John Granlund e soprattutto Robert Burns, tra i fondatori dell’antropologia alpina, che nel 1959 pubblicò uno studio sulla comunità di Saint Véran (Granlund, Burns & Rosenberg, 2020).
Per molto tempo è invalsa l’idea che l’Italia non fosse un “campo” attraente per gli antropologi stranieri; che, in fin dei conti, le piccole realtà rurali, i territori alpini o il Mezzogiorno fossero “terreni di caccia” per gli antropologi italiani, senza l’attrazione, il fascino e l’esotismo delle isole Trobriand, del Sudan o della Siberia. Tuttavia, l’esempio degli Amerikaner sembra fatto apposta per demolire questa visione alquanto ingenua, evidenziando non solo l’interesse degli antropologi stranieri per l’Italia, ma il loro contributo allo sviluppo di questa disciplina nel nostro Paese.
Non sempre, però, questo apporto è stato pienamente riconosciuto, e ci sono capitoli che aspettano ancora di essere narrati. In questo senso, il nuovo volume di Francesco Faeta Vi sono molte strade per l’Italia. Ricercatori e fotografi americani nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta (2022), ritorna sui passi degli antropologi statunitensi che precedettero di vent’anni quei loro connazionali dediti alle Alpi. Profondo conoscitore dell’opera demartiniana, Faeta si è occupato a lungo delle retrospettive storiche dell’antropologia italiana, specie per quanto riguarda il Mezzogiorno. Oltre alla collaborazione con la RAI e con importanti riviste scientifiche in qualità di fotografo e documentarista etnografico, l’interesse di Faeta per i media visuali trova espressione nell’insegnamento di Antropologia visiva presso l’Università di Messina e la direzione della Scuola di etnografia visiva all’interno dell’Istituto superiore di fotografia e comunicazione integrata di Roma. L’anno scorso avevamo recensito il suo contributo nel volume curato da Vincenzo Matera, in cui la sua sensibilità per la fotografia e la complessità degli sguardi rimanevano dei tratti distintivi (Martellozzo 2021). Scriveva allora: «Non è importante cosa si guarda, ma come si guarda e lo sforzo critico e autocritico di ciascun etnografo deve essere improntato a una sistematica analisi del proprio, oltre che dell’altrui, way of seeing» (Faeta 2020: 225). In continuità con tali riflessioni, questo nuovo libro di Francesco Faeta rileva tutta l’importanza degli “sguardi da lontano” dei ricercatori statunitensi che, negli anni Cinquanta, hanno vissuto e lavorato nel Mezzogiorno.
Edito da Rubettino, il volume si compone di tre capitoli preceduti da un’introduzione dello stesso Faeta e due postfazioni scritte rispettivamente da Michael Herzfeld e Marta Petrusewicz. Saremmo tentati di suggerire al lettore di far precedere alla lettura dei capitoli principali proprio queste due “lettere”, le quali forniscono delle importanti chiavi di accesso al testo e all’analisi condotta dall’antropologo romano. In merito al valore di questo volume, cedo volentieri la parola a Herzfeld:
«il gran contributo di Faeta è quello di aver situato il lavoro in Italia di tutti e tre [i ricercatori statunitensi] in un doppio contesto: da un lato, inserisce le loro ricerche nella storia dell’antropologia in Italia, mentre dall’altro le connette con una vasta gamma di attività intellettuali tra cui spiccano letteratura e politologia».
Ma andiamo con ordine, partendo proprio da alcuni temi storici tanto cari a Petrusewicz. Prima degli antropologi statunitensi fu la giovane aristocrazia inglese a percorrere, sull’impulso del Grand Tour, le “molte strade per l’Italia”. La maggior parte di questi viaggiatori terminavano il loro itinerario a Napoli: pochi si spinsero nell’entroterra campano, o in Lucania, Puglia e Calabria, territori difficili da attraversare e distanti dai sentieri convenzionali del Tour. Le stesse istituzioni centrali che governavano quelle terre, specie con l’avvento del Regno d’Italia, riscontrarono notevoli difficoltà nell’esercitare il proprio dominio, o finanche manifestare la propria presenza nelle “Indie di quaggiù”. Tale condizione di marginalità storica (generata, non innata) del Mezzogiorno costituì una delle ragioni principali che portarono economisti, giornalisti, sociologi ed etnografi a “riscoprire” queste terre; riscoperta che, ovviamente, è da intendersi come un’operazione di inclusione di tali realtà nella più ampia cultura nazionale e internazionale, con tutte le ambiguità del caso.
Nel secondo dopoguerra, e con la nascita della nuova Repubblica, presero dunque avvio numerose iniziative tese a indagare le comunità del Mezzogiorno. Alcune mantenevano ancora “un’arcaicità” – per recuperare certe nuances demartiniane – placida e drammatica; altre erano decisamente ricettive nei confronti delle trasformazioni nazionali e in pieno fermento: si pensi a Tricarico e alla figura cruciale di Rocco Scotellaro, la cui biografia s’intreccia con molte delle vite tratteggiate nel volume di Faeta.
Nei manuali di antropologia, quando si accenna alle ricerche statunitensi nel Mezzogiorno vengono citati immancabilmente due nomi: Friedrich Friedmann e Edward Banfield. Friedmann condusse un’inchiesta sui Sassi di Matera nel primo lustro degli anni Cinquanta, un lavoro d’equipe coordinato dal sociologo naturalizzato statunitense (Friedmann 1952); il secondo fu il responsabile di una altrettanto famosa ricerca a Chiaromonte, promossa nel 1954 dall’Università di Chicago e dal Social Science Research Council (Banfield 1958). Friedmann e Banfield sono indubbiamente i più importanti esponenti di quella applied anthropology che, come la descrive Massimo Squillacciotti, costituiva «il riferimento culturale per un successivo programma di intervento politico, nel clima della ‘ideologia della ricostruzione’ post-bellica» (Squillacciotti 1976: 302). E tuttavia, sono gli stessi anni in cui de Martino condusse le sue spedizioni nel Meridione, adottando una metodologia etnografica e una prospettiva d’analisi assai distante da quella dei ricercatori d’oltreoceano e di alcuni studiosi italiani: due esempi su tutti, Manlio Rossi-Doria e Tullio Tentori, non a caso promotori delle ricerche statunitense e importanti punti di contatto tra le due nazioni.
Rispetto alle ricerche nel Mezzogiorno, de Martino annotava nei suoi appunti preparatori alla spedizione in Lucania: «II limite della applied anthropology americana e delle sue applicazioni meridionali (spedizione Friedmann) sta nella assoluta mancanza di problema storiografico» (Gallini 1986: 120). Si tratta, come vedremo, di un commento ingeneroso, cui fanno eco le frasi scritte nel 1953 in una lettera ad Alberto Maria Cirese:
«Vi sono taluni nostri studiosi che si avvicinano alla etnologia italiana e al folklore senza avere la più piccola informazione di questa tradizione [storicista], infatuati magari della applied anthropology americana, e desiderosi di trapiantarla in Italia; […] non ho nessuna fiducia negli sforzi di questi studiosi che sono culturalmente degli sradicati rispetto alla nostra cultura nazionale, e quindi i meno adatti a quell’opera di inserimento e giustificazione del folklore nella nostra cultura» (de Martino 1953: 3).
La stoccata, nemmeno troppo velata, a Tullio Tentori esprime bene quanto dicevamo sopra rispetto ai diversi posizionamenti possibili negli anni Cinquanta, prima che i meriti – e diciamolo pure, l’autorità – dell’etnologo napoletano opacizzasse questa parte di storia degli studi. Sotto questo aspetto, il volume di Faeta recupera e giustifica l’importanza di altri way of seeing, eterodossi rispetto alla tradizione storicistica nazionale tanto cara a de Martino, come già sottolineato da Silvia Lipari in una recente recensione (Lipari 2020). Senza scadere in inutili dicotomie, Faeta propone nella sua introduzione una sintetica ma efficace disamina di questa varietà di sguardi verso il Mezzogiorno, senza celarne i limiti:
«Si può, in estrema sintesi, rilevare che i due approcci di ricerca ebbero relazioni di stretta funzionalità con il retroterra ideologico e il contesto sociale che erano alle loro spalle: un radicalismo, fortemente dottrinale ma sostenuto da un impianto teorico forte, sul versante italiano (e particolarmente demartiniano) un riformismo, empiricamente connotato, aperto al rilievo sociologico delle società osservate e notevolmente vincolato da cornici istituzionali, inficiato da un insieme di pregiudizi ricorrente sul Mezzogiorno e da un approccio peculiare, sul versante straniero, e in particolare americano».
Al netto di queste considerazioni, le ricerche di George Peck, David Seymour e Frank Cancian corrispondono ad altrettanti sguardi da lontano le cui ragioni, lungi dall’essere espressione degli interessi geopolitici statunitensi, trasformano lo svantaggio di una doppia marginalità (del Mezzogiorno e del ricercatore) in un vantaggio intellettuale.
Tra Stati Uniti e Italia
Cominciamo proprio da George Peck, che nel corso della sua breve ricerca a Tricarico ebbe modo di incontrare molte delle figure che abbiamo evocato poc’anzi. Il suo arrivo nel paese lucano è assolutamente canonico: una borsa di ricerca del Fulbright Program, la mediazione di Rossi-Doria con l’Ateneo statunitense, l’interesse dell’Università di Napoli per una ricerca sugli effetti della riforma agraria del Mezzogiorno. Decisamente più particolare sarà la fine della sua permanenza, effetto di un clima politico alquanto teso e che segnerà profondamente l’esperienza di Peck. Faeta ci restituisce l’immagine di un giovane dalle idee libertarie, federaliste e anti-fasciste, insofferente verso certi atteggiamenti conservatori della sua patria: tutt’altro che un agente in incognito della CIA, come talvolta sono stati ritenuti questi antropologi statunitensi. Anzi, sarà lui stesso a criticare de Martino per la sua indebita assimilazione di Malinowski – e di altri ricercatori stranieri – a intellettuale al servizio della classe borghese e del capitalismo americano. A Tricarico Peck entra subito in contatto con Scotellaro, un’amicizia preziosa che nell’immediato gli procurò una segnalazione alla Questura di Matera e che, probabilmente, contribuì al ritiro del passaporto e alla fine della sua ricerca.
Gli intralci da parte dell’amministrazione statunitense, difficoltà personali e la brevità del campo resero difficile la compilazione di una vera e propria monografia su Tricarico; nonostante il materiale raccolto e la stesura di diversi capitoli, Peck dovette abbandonare il progetto, di modo che non possediamo altro che alcune note e relazioni sullo stato della ricerca. Anche così, tuttavia, Faeta nota la grande sensibilità del giovane ricercatore verso aspetti specifici del Mezzogiorno e della realtà di Tricarico, specie per quanto riguarda la struttura sociale della piccola comunità lucana, e i fenomeni di emigrazione e industrializzazione che accompagnano la riforma agraria dell’epoca. «Il tentativo che traspare, sin da qui, è quello di conciliare il mero piano dell’economia agraria con quello più vasto dello sfondo storico e dell’inchiesta sociale e politica. Con immediate aperture ad aspetti di carattere socio-antropologico».
L’inchiesta sociologica di Peck accoglie i riflessi delle più ampie dinamiche politiche nazionali – come la ricezione del comunismo tra i contadini del Mezzogiorno – nella realtà di Tricarico. Un esempio di come ogni ricerca antropologica, perfino quella più marcatamente quantitativa, sia influenzata dalle relazioni create sul campo: ed è qui che comprendiamo l’importanza dell’incontro tra Peck e Scotellaro, della capacità del primo di accogliere lo sguardo del secondo, facendolo dialogare con il proprio retroterra culturale.
Anche il secondo dei nostri ricercatori, David Seymour, agisce nel segno di questa continua mediazione che, nel suo caso, assume una dimensione ancora più intima. Nemmeno Seymour, diciamolo subito, ha prodotto una etnografia nel senso classico del termine; in questo caso, però, non era nemmeno richiesta dal suo incarico, che fin dall’inizio prevedeva invece un approccio visuale attraverso la fotografia. Nell’ambito del programma per la lotta all’analfabetismo, l’Unesco commissiona a Seymour un lavoro di documentazione fotografico riguardante le scuole calabresi per bambini e adulti.
Tuttavia, prima di entrare nel merito della sua ricerca, Faeta compie una breve deviazione per parlare di Carlo Levi, promotore del viaggio di Seymour e tra i pochi a valorizzarne i risultati in Italia. Quello che Faeta compie – molto opportunamente – in questo capitolo è sviluppare l’immagine del ricercatore statunitense usando Levi come “negativo fotografico”; non solo perché la storia dei due è costantemente intrecciata, ma anche per il ruolo fondamentale dello scrittore italiano nel creare una nuova sensibilità verso il Mezzogiorno. Levi, non c’è bisogno di dirlo, come tutte le personalità di chiaro spessore è stato osannato, osteggiato e solo col tempo compreso nella sua giusta dimensione; Faeta ne ripercorre l’evoluzione intellettuale, mettendone a fuoco la “diversità” interna e la capacità, proprio negli anni Cinquanta, di mitigare la sua visione meta-storica e di dolorosa immobilità del Mezzogiorno. Come nel caso di Peck o Scotellaro, le posizioni ideologiche – nel senso migliore del termine – di Levi rispetto al tempo e alla Storia riflettono una dimensione personale che non può mai davvero venire recisa: «la crisi del tempo lineare, di conseguenza, che la nascita del Cristo inaugura […] si affermava nel vissuto, e nell’esercizio letterario, di Levi come risposta alla condizione duplicemente segregata della sua esistenza».
Per Faeta, Seymour è rimasto influenzato dal suo contatto con Levi, e ne vediamo un esempio nella sua considerazione dell’analfabetismo non come mero gap culturale da colmare, sintomo di arretratezza e sorta di versione culturale delle malattie fisiche da debellare, bensì come questione più profonda, che comprende ad esempio la perdita di un’autonomia linguistica dialettale; e sarebbe facile, a questo punto, evocare nuovamente Scotellaro, o Pasolini. Fatto sta che Seymour è particolarmente sensibile a questi fenomeni di acculturazione: nato David Szymin da una famiglia ebraica, uccisa nei lager nazisti, Seymour «diviene americano attraverso la strada di Parigi e per mezzo della fotografia». Migrante europeo naturalizzato negli Stati Uniti, il giovane fotografo manterrà costantemente questa tensione tra le proprie origini e la nuova patria, di modo che la sua biografia e la sua stessa ricerca costituirono momenti di una continua plasmazione della propria identità personale.
Sul piano metodologico, il suo lavoro tradisce quella che Faeta riconosce come una fiducia nell’evidenza discorsiva della fotografia: essa talvolta basta da sé, senza bisogno di didascalie o appendici esplicative che, tuttavia, ha accluso nel progetto sull’analfabetismo. Come osserva Herzfeld nella sua lettera, l’immagine lascia “impliciti” molte informazioni e messaggi, che spesso non possono essere tradotti in un testo pena il tradimento di quell’indicibile. Seymour ne era ben cosciente, e pertanto ha lasciato ai testi una funzione ancillare, lasciando alle fotografie il compito di narrare l’indicibile (anzi, l’inscrivibile) dell’analfabetismo nel Mezzogiorno. Una selezione di quell’album è stata riprodotta nel libro, ma rimandiamo il lettore direttamente al commento di Faeta, che ogni sintesi da parte nostra finirebbe per essere inadeguata. Ci limiteremo a sottolineare un solo aspetto del suo stile di lavoro: per quanto riguarda la scelta dei soggetti, nel suo ampio percorso nella Calabria Seymour non immortala mai contesti festivi o rituali, il che non è poco se pensiamo all’attenzione estrema data agli stessi soggetti da de Martino; ennesimo esempio della diversità di sguardi dell’etnologia demartiniana e della applied anthropology.
A rigore, l’unico ad essere antropologo di professione è Frank Cancian, che nel 1957 si recò a Lacedonia, piccola comunità dell’Irpinia, per svolgere un’inchiesta sulla dimensione locale avvalendosi principalmente della fotografia. Per Cancian sarebbe più corretto parlare di un ritorno, giacché entrambi i rami della sua famiglia provenivano dall’Italia, e precisamente da alcuni paesi veneti poco distanti da dove gli Amerikaner di Ortmayr svolsero le loro ricerche. Questa storia famigliare fu determinante nella scelta della carriera di antropologo e dei primi interessi del giovane statunitense. Prima di giungere in Italia, grazie alla mediazione di Tentori, Cancian compì una breve survey negli Stati Uniti, affinando la sua metodologia e l’uso della fotografia su alcune comunità di nativi americani. In un certo senso la ricerca a Lacedonia rappresentò una breve parentesi nel lavoro dell’antropologo, che tornato in patria si dedicò al contesto latino-americano; una parentesi che tuttavia non venne mai dimenticata, e che anzi trova un bel momento di ritorno (l’ennesimo) con il dono dell’archivio fotografico alla comunità di Lacedonia. Un gesto di restituzione che, a sessant’anni di distanza, corona l’esperienza di Cancian in Italia.
Tutto ciò emerge con forza in questo ultimo capitolo che Faeta ha scritto insieme allo stesso antropologo statunitense, morto purtroppo prima che il volume venisse dato alle stampe. Lo possiamo leggere perciò non solo come un inestimabile documento di memoria, ma come un tentativo di rimediare alla mancanza di una monografia su Lacedonia. Come Seymour, seppure in modo meno programmatico, anche Cancian ha affidato la sua esperienza etnografica alla fotografia; altri strumenti, compresi quelli più quantitativi e “tipici” della applied anthropology, non diedero i risultati sperati: un esempio fu il questionario messo a punto da Klukhohn e fortemente promosso dallo stesso Tentori, che incaricò Cancian di testarlo sulla comunità irpinese. L’insuccesso di questa applicazione mette in risalto, di converso, uno “stile” etnografico fatto di convivialità e condivisione, non solo di erudizione e raccolta di dati quantitativi.
Una scelta di metodo che accomuna il ricercatore statunitense a Peck e Friedmann, e che permette a Faeta di mostrare l’infondatezza di certe rappresentazioni stereotipate di questi antropologi d’oltreoceano. In particolare, Cancian dimostra notevole spirito critico nei confronti delle posizioni di Banfield, il cui uso del concetto di ethos finisce per produrre una visione semplificante ed eccessivamente astratta della realtà sociale. A questa lettura Cancian oppone il tentativo di cogliere, attraverso la fotografia, le dinamiche e i processi di una comunità che sta cambiando, senza alcuna pretesa di immortalare oggettivamente la comunità. Possiamo dunque considerare l’archivio fotografico come un corpus autonomo, di cui Faeta propone un’attenta analisi sotto il profilo della tecnica e dell’orientamento metodologico adottati da Cancian nel suo lavoro.
L’etnografia visiva di Lacedonia è irriducibile sia alle posizioni di Banfield che a quelle di de Martino:
«L’Albano di De Martino è abitata da contadini e braccianti poverissimi, la Lacedonia di Cancian presenta una stratificazione di classe ben più complessa, cui egli dedica molta attenzione: vi sono i braccianti, i contadini, i possidenti, la piccola borghesia rurale, gli intellettuali disoccupati, i benestanti e gli amministratori (benestanti in quanto amministratori e amministratori in quanto benestanti). E poco conta che sicuramente Albano presentasse una struttura più elementare di Lacedonia: i due paesi sono stati scelti, con consapevolezza, proprio per le loro caratteristiche sociali».
Sono le ragioni di queste scelte che rendono conto della diversità degli sguardi di tutti questi ricercatori: da Friedmann a Peck, da Seymour a de Martino, ciascuno di essi ha guardato le realtà del Mezzogiorno cogliendone frammenti separati; alcuni di questi pezzi sono andati dimenticati, ma non per questo vanno considerati come episodi di minor valore. Prendendo a prestito le parole di Lipari, questo volume «porta una convincente testimonianza su forme di rappresentazione diverse, che non ebbero la possibilità di divenire egemoniche, della vicenda sociale del nostro Sud, mostrando una concreta modalità di descriverlo attraverso le immagini» (Lipari 2020). In questo senso, la fotografia non è solo uno strumento espressivo fra i tanti: Faeta dimostra, ancora una volta, come essa permetta di creare memoria, di fissare l’incrocio di sguardi tra coloro che venivano da lontano, da un altro continente, e quelli che pur nella loro “vicinanza” sono stati relegati a lungo in margini lontani della nostra Storia.