Da La lettura inserto del Corriere della Sera del 5 maggio 2013
Tra le aste che i bambini fanno sul quaderno per imparare a formare le lettere dell’alfabeto e quelle che il futuro Conte di Montecristo traccia col gesso sulla parete della segreta per computare i giorni non c’è alcun legame, se non questo: che per capire il carcere servono a volte gli occhi di un bambino. «Questi, signori, sono le aste, sono i fondamenti, l’abc di uno Stato e di una qualunque civiltà (…). Se non sono a posto questi mattoni è davvero notte e sono davvero i mostri». Enzo Tortora non era un bambino, ma del bambino aveva serbato l’indocilità e la capacità di meravigliarsi. Quando pronunciò queste parole era il luglio del 1985, aveva già scontato sette mesi di carcere in attesa di giudizio e quasi altrettanti ai domiciliari. Il senso è chiaro: la civiltà delle carceri non dovrebbe essere neppure una questione politica, ma un’ovvietà prepolitica, nel senso in cui Benedetto Croce definiva il liberalismo un «prepartito». I fondamenti, l’abc, le aste. Oggi molti ne parlano come di una questione improrogabile, ma in un Paese che coltiva la retorica dell’emergenza, senza assumerne fino in fondo la moralità, non è detto che questo sia un bene. Nel suo discorso programmatico il premier Enrico Letta ha accennato alla «situazione carceraria intollerabile», il neoministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri l’ha già definita «una priorità che mi sta molto a cuore». Ma sono parole, e a lume d’esperienza c’è il rischio che lo restino.
E allora, parole per parole, meglio rivolgersi a due libri recenti dedicati alle storture del sistema penitenziario italiano. Il primo, Condannati preventivi (Rubbettino), lo ha scritto Annalisa Chirico, giornalista e militante radicale. Parla di quella che un tempo si chiamava carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare in carcere. Dovrebbe essere una extrema ratio, una misura terribile a cui ricorrere solo quando non c’è alternativa, ma con l’andare degli anni e il succedersi delle emergenze è diventata una prassi, a cui i magistrati si attengono con un pericoloso connubio di intransigenza inquisitoria e pigrizia burocratica. Il risultato è che poco meno della metà della popolazione delle nostre carceri traboccanti è fatta di presunti innocenti, molti dei quali in attesa di un giudizio di primo grado.
Il libro chiarisce bene che le nostre prigioni fuori legge sono il punto di capitolazione di un sistema che è malato fin dalla testa – a partire dalla politica e dalle sue leggi «carcerogene» – e che è trascinato ancora più in basso da un’opinione- pubblica in preda a una persistente intossicazione forcaiola. Ma più ancora, si può dire, le carceri sono il nostro ritratto di Dorian Gray: l’immagine deforme in cui si specchiano l’inamovibilità, la sciatteria burocratica, la mentalità dilatoria di tutto un Paese, con la piccola differenza che a marcire non sono fascicoli in un armadio, ma uomini e donne in gabbia.
Il libro è pieno di osservazioni ragionevoli, ma in Italia la situazione è così buia che la letteratura sul carcere, anche se improntata al senso comune, suona più utopistica della Nuova Atlantide di Bacone. Ci vogliono, di nuovo, gli occhi di un bambino, o di un bambino di mezza età: «Un uomo, un cittadino, chiunque di voi ha diritto a un giudizio – se è accusato di qualche cosa – rapido, pronto, per mille e un motivo (…). Quindi direi che il metro di civiltà di un Paese si misura proprio dalla lunghezza o dalla brevità della carcerazione preventiva. È un male terribile. È un male contro il quale occorre battersi come occorre battersi contro gli altri mali del secolo. Questo è il male italiano del secolo».
Tortora lo spiegò agli alunni di una scuola milanese, che lo intesero a meraviglia. Perché la giustizia avrà pure i suoi tempi, ma le nostre vite sono troppo brevi per tollerare uno Stato che ci tiene in gabbia per anni senza averci condannato. Ci vuole tanta dottrina per capirlo? La prima parte di Condannati preventivi ripercorre casi noti e meno noti – Alfonso Papa, Lele Mora, Amanda e Raffaele, a ritroso fino alla vicenda atroce di Giuliano Naria, che negli anni di piombo scontò quasi dieci anni di carcere in attesa di giudizio, la più lunga custodia cautelare della storia repubblicana. Tra le storie giudiziarie raccolte c’è anche quella di Salvatore Ferraro, condannato nel 2003 per favoreggiamento nell’omicidio di Marta Russo. Ferraro, che si è sempre proclamato innocente, ha scontato un anno e quattro mesi di carcere preventivo, più otto mesi ai domiciliari. «Ho vissuto il carcere da spettatore meravigliato piuttosto che da persona che lo subiva», racconta. Da allora non ha fatto che occuparsi di carceri e carcerati, e il frutto del suo impegno è un libro, La pena visibile, anch’esso edito da Rubbettino. Di custodia cautelare non si fa cenno, perché secondo Ferraro, in un Paese civile, semplicemente, non dovrebbe esistere. Anzi, a dirla tutta, non dovrebbe esistere neppure il carcere, perché nei suoi trecento anni di vita ha dimostrato di non funzionare affatto. Non isola la delinquenza, la raggruppa. Non porta il detenuto a pagare il debito, ma anzi lo fa sentire creditore rispetto alla società. Chi entra in prigione si autoassolve, si deresponsabilizza e finisce (bene che vada) per assuefarsi a quell’«altro mondo».
Giusto o sbagliato, il carcere non risponde a nessuna delle ragioni per cui lo si tiene in vita. Ma l’opinione pubblica non ha modo di constatarlo, perché è un luogo opaco e segregato, e questa invisibilità protegge i suoi fallimenti. Per Ferraro il punto archimedico è qui: rendere visibile la pena, fare in modo che il condannato la sconti a contatto con una porzione di quella società in cui pure dovrebbe reinserirsi. Non sono i sogni compensatori di un giovane giurista che ha avuto guai con la giustizia, sono parte di un dibattito ormai pluridecennale sul superamento del carcere a cui ha contribuito di recente anche un ex magistrato, Gherardo Colombo, con Il perdono responsabile.
Utopie? Può darsi, almeno per gli anni (o i decenni) a venire. Ma per convincersi che la pena invisibile ottiene l’opposto di quel che cerca basta riaprire il diario di quell’uomo candido – anche e soprattutto nel senso voltairiano – messo in gabbia nel giugno del 1983, proprio trent’anni fa: «Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».
Di Guido Vitiello
Altre Rassegne
- 2013.05.06
Le prigioni piene di presunti innocenti