Marco Mastroianni, sacerdote della diocesi di Lamezia Terme (Catanzaro), attualmente in servizio presso la Nunziatura apostolica in Tanzania, nel suo libro affronta il tema del rapporto tra comunità ecclesiale e organizzazioni criminali, da un punto di vista normativo e, più specificamente, canonistico, cioè di diritto della Chiesa cattolica. Il testo, pur non mancando di un lessico specialistico (si tratta d’altronde di una ricerca condotta durante gli studi di dottorato in Diritto canonico presso la Pontificia Università Santa Croce di Roma), si presenta come una lettura agevole anche per i non addetti ai lavori.
Una lettura che, anzi, risulta molto utile a comprendere il dibattito nella Chiesa cattolica in relazione ad una riforma del diritto penale canonico volta a sanzionare con la pena della scomunica “latae sententiae” (vale a dire, senza che sia necessario un accertamento da parte dell’autorità ecclesiastica) il delitto di mafia. O, meglio, sarebbe più corretto parlare ora di delitto di mafia e di corruzione. Infatti, nel comunicato stampa del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, in merito alle conclusioni del primo “Dibattito internazionale sulla Corruzione”, svoltosi in Vaticano il 15 giugno 2017, si è letto che, tra i lavori successivi e le future iniziative del gruppo di lavoro – la Consulta per la giustizia contro la corruzione e le mafie – vi è la «necessità di approfondire, a livello internazionale e di dottrina giuridica della Chiesa, la questione relativa alla scomunica per corruzione e associazione mafiosa».
Come sottolinea Davide Cito, docente di Diritto penale canonico alla Santa Croce, nella presentazione al volume, la previsione di una fattispecie canonica che sanzioni un simile delitto rappresenterebbe nella «visibile dinamica ecclesiale» quella che è la «totale estraneità tra vita cristiana e appartenenza mafiosa».
Il magistero dei Pontefici, a partire dalla richiesta di conversione di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento, nel 1993, non lascia spazio a fraintendimenti circa una inconciliabilità di fondo tra appartenenza mafiosa e fede cristiana. Dalla Piana di Sibari, in Calabria, Papa Francesco ha lanciato nel 2014 un anatema contro i mafiosi. Parole, quelle di Bergoglio, rimaste impresse nella memoria di tutti: «I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati».
Eppure, come sottolinea l’autore, a questa netta condanna del Pontefice non ha fatto seguito l’introduzione di una nuova fattispecie criminosa nel Codice, secondo le norme di promulgazione della legge canonica, anche se i vescovi calabresi hanno ricostruito l’appartenenza mafiosa come integrante il delitto di apostasia di cui al canone 1364 c.j.c. L’autore, inoltre, mette in luce i limiti normativi delle scomuniche che rintracciamo nei “diritti particolari” dell’episcopato siciliano (a partire da quella del 1944) e della diocesi di Locri-Gerace nel 2006, il cui allora vescovo Giancarlo Maria Bregantini ha esteso ai mafiosi la pena che il Codice commina per il delitto di aborto (canone 1398 ), nonostante la legge penale canonica sia sottoposta ad interpretazione “stretta” (canone 18).
L’itinerario storico e normativo è ben ricostruito nel volume di Mastroianni, che accenna anche agli interventi dei vescovi messicani in materia, evidenziando così – se mai ce ne fosse bisogno – la portata universale del fenomeno. L’autore sottolinea, peraltro, la funzione “medicinale” assunta dalla pena nell’ordinamento canonico che ben si allinea alle istanze di giustizia riparative negli ordinamenti civili: «Comminare una sanzione-», leggiamo, «non sarebbe un’azione fine a se stessa né una sorta di indispettita ripicca o di condanna senza appello, ma l’estremo tentativo di risvegliare la coscienza del fedele smarrito in una tale strada di morte, per sé e per gli altri».
Lo studio di Mastroianni si basa anche su documentazione inedita. Di grande interesse è la pubblicazione, in appendice, della risposta “privata” del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi alla richiesta di un parere circa le parole pronunciate da Papa Francesco, firmata dal cardinale Francesco Coccopalmerio (presidente) e dal vescovo Juan Ignacio Arrieta (segretario), in data 16 luglio 2014. Nella risposta è precisato che le parole del Papa «non costituiscono …, in modo diretto e immediato, una nuova fattispecie penale canonica. Ma lo potrebbero diventare».
Viene individuato, così, il percorso che dovrebbe indirizzare il procedimento di formazione della legge canonica: innanzitutto, l’identificazione dell’azione delittuosa e del soggetto attivo che la compie. Una volta precisata la fattispecie canonica, secondo il Pontificio Consiglio, sarebbe opportuno un intervento della Conferenza Episcopale Italiana, con un decreto generale, previo mandato speciale da parte dellaSede Apostolica.
Dal volume di Mastroianni emerge, insomma, che nel 2014 la Santa Sede guardava con favore ad un provvedimento della Conferenza Episcopale Italiana. Negli anni, comunque, la riflessione si è sempre più spostata a livello di Chiesa universale. Sul punto, Mastroianni propone di valutare la possibilità di un ampliamento contenutistico del canone 1374 sulle associazioni che “complottano” contro la Chiesa, con un accostamento delle consorterie di stampo mafioso alla massoneria, «quantomeno partendo dal singolare aspetto dei riti iniziatici», scrive l’autore.
Tale proposta ha certamente i meriti di dare una risposta efficace all’esigenza di tradurre giuridicamente, in termini di fattispecie criminosa, la comune matrice di peccato dei fenomeni mafiosi e dei fenomeni corruttivi, nonché di rispondere adeguatamente alle più recenti risultanze processuali e sociologiche riguardanti le cosiddette “massomafie”. A parte questo, però, bisogna sottolineare la necessità di una evidente ricomprensione e reimpostazione, ecclesiologica e codicistica, del canone in questione, attualmente inserito tra i delitti contro l’autorità ecclesiastica e la libertà della Chiesa, per ragioni soprattutto di carattere storico. Ma la «strada di morte» – come l’ha definita Papa Benedetto XVI –, «la strada di male» – come l’ha definita Papa Francesco -, che imboccano le organizzazioni criminali è tale per cui la relativa fattispecie penale non potrà che rientrare tra i delitti contro la vita e contro la libertà dell’uomo.
C’è il rischio che la discussione appaia come un tema di interesse solo per gli specialisti del settore. O, ancora peggio, come una questione tutta interna alla Chiesa. E invece non è così. Come dimostrano le parole di Marisa Manzini, procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Cosenza, nella postfazione al volume: «La potenza delle mafie potrà essere vinta attraverso il comune cammino dello Stato e della Chiesa che dovranno esprimere una “tensione costante” verso un’alleanza che conduca, attraverso l’uso delle armi della conoscenza, della cultura, della parola e soprattutto del perdono – successivo alla presa di coscienza del male compiuto e della volontà di collaborare per dimostrare l’avvenuto distanziamento di una vita criminale – a liberare la comunità tutta dalla presenza asfissiante di organizzazioni che tendono a distruggere la dignità umana». Il diritto canonico rappresenta così un efficace strumento, insieme ad altri, di liberazione, civile e religiosa, dalle mafie.