Le destra radicale noglobal. Antimondialismo e capitalismo (sinistrainrete.info)

di Matteo Luca Andriola, del 14 Agosto 2019

Marco Fraquelli

A destra di Porto Alegre

Perché la Destra è più noglobal della Sinistra

Pronunciare oggi la parola antiglobalizzazione, ai più fa venire in mente la sinistra radicale e l’area della contestazione nata alla fine degli anni Novanta nota come “movimento noglobal”: area multivariegata, composta da associazioni e gruppi che contestano il processo della globalizzazione neoliberista, fonte di inaccettabili iniquità tra Nord e Sud del mondo e all’interno delle singole società nazionali, in lotta contro lo strapote re delle multinazionali e le politiche liberoscambiste seguite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e dalla Wto (World Trade Organization). È giusto però porsi una domanda: vista l’egemonia della sinistra su tale movimento di protesta transnazionale, per la forte presenza di soggetti neomarxisti, ecologisti e vicini all’antagonismo, il fenomeno di questa contestazione si limita alla sinistra? No.

Marco Fraquelli, autore del volume A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più no-global della Sinistra (Rubbettino, 2005) sottolinea – pur essendo egli stesso di sinistra e discepolo del politologo Giorgio Galli – che i movimenti noglobal, nati a Seattle nel 1999 e protagonisti di importanti battaglie storiche, come la nascita nel 2001 del Social Forum di Porto Alegre in contrapposizione al World Economic Forum di Davos, e la contestazione del G8 di Genova, tendono “a contestare la globalizzazione convinti comunque che si tratti di un fenomeno che, attraverso opportuni correttivi, possa virare verso orizzonti positivi”, “che possa esistere insomma una globalizzazione ‘dal volto umano’, che sia possibile in altri termini, definire e imporre una nuova governance (e questo spiega per esempio le istanze per l’applicazione della Tobin Tax, per la cancellazione del debito contratto dai Paesi poveri, ecc.)” (1): ciò mostra che questi movimenti accettano le implicazioni della globalizzazione, rifiutando solamente il lato economico (“la Sinistra ha come obiettivo la mondializzazione senza il mercato” scrive Jean-François Revel), essendo figli dell’universalismo.

Al contrario la cultura di destra (termine usato dall’autore operando un’evidente quanto utile semplificazione, che racchiude complesse esperienze radicali-tradizionaliste, comunitariste o la Nuova destra metapolitica) presenta “molto spesso, nei confronti della globalizzazione, posizioni assai più radicali rispetto ai movimenti liberali e di sinistra” essendo “interprete ‘costituzionalmente’ di un nichilismo così profondo da non lasciare alcun margine a istanze in qualche modo riformatrici” (2), dato che nella sua lunga storia ha espresso valori come identità, patria, comunità, specificità e senso della gerarchia; tutti valori intrinsecamente antagonisti a qualsivoglia visione uniformante e globalista. Ma ciò significa che è anche contro il sistema economico capitalista?

 

Il mondialismo: il sistema per uccidere i popoli

Il grande cambio di paradigmi culturali in seno alla cultura di destra, che spinge diversi suoi settori ad archiviare l’analisi cospirazionista di marca antisemita dei fenomeni globali – che partendo dai Protocolli dei Savi di Sion porta alle riflessioni di Emmanuel Malynski (autore di un saggio sulla “guerra occulta”) e di Julius Evola – avviene in Francia in seno al Grece (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne), il centro studi francese patrocinato dal 1969 da Alain de Benoist e da altri intellettuali provenienti da destra, che si fa portavoce delle istanze della cosiddetta nouvelle droite; in Italia ciò avviene dentro la redazione del mensile Orion, fondato da Maurizio Murelli nel 1984, che dopo l’iniziale “linea nazional-rivoluzionaria” “vicina alle posizioni tradizionaliste-rivoluzionarie di Franco ‘Giorgio’ Freda” (3), arriva a proporre arditamente – non senza i condizionamenti della nouvelle droite – una ‘nuova sintesi’ nazionalcomunista: l’unione degli ideali del “fascismo-movimento” (secondo l’espressione coniata da Renzo De Felice) con quelli del bolscevismo pre-regime, accanto a un occhio di riguardo per il mondo islamico (soprattutto l’Iran di Khomeini) e la spiritualità russa. Un accostamento ‘rivoluzionario’ che li porta a riunire in un unico pantheon richiami a Julius Evola, Léon Degrelle, Alain de Benoist e Aleksandr Dugin, a Mao Zedong, Fidel Castro, Iosif Stalin, Che Guevara, Yasser Arafat, la guerriglia corsa, basca e irlandese, arrivando fino alle tesi di Noam Chomsky e Serge Latouche; il tutto nell’ottica di un’aspra lotta al mondialismo, ovvero alla globalizzazione nel suo significato più profondo, non solo economico ma anche politico-culturale e antropologico, e ai suoi principali fautori, gli Usa.

La nouvelle droite svilupperà le prime analisi sul mondialismo, che non declinerà mai nel cospirazionismo, descrivendolo come un tratto ontologico del capitalismo stesso, che per sua natura non può rimanere relegato entro i confini di un singolo Stato ma ha la tendenza a ‘mondializzarsi’. L’analisi del fenomeno viene fatta nel 1981 dall’esponente del Grece Guillaume Faye nel libro Le système à tuer les peuples (Il sistema per uccidere i popoli), dove l’autore, citando Weber, Schmitt, Habermas e la Scuola di Francoforte – ergo, non intellettuali di destra – spiega che dal 1945 si sarebbe sviluppato globalmente un Sistema, descritto in questi termini: “La caratteristica precipua del Sistema, che oggi esercita la sua azione alienante e repressiva in gradi diversi su tutti i popoli e tutte le culture, è in effetti quella di essere costituito da un insieme di strutture di potere – di carattere principalmente economico e culturale, ma anche direttamente politico, tramite le grandi potenze e le istituzioni internazionali – completamente inorganico, funzionante in modo meccanico, senza altro significato che la propria sopravvivenza ed espansione in vista di un’uscita definitiva dell’umanità dalla storia […] le espressioni particolari del suo potere sociale sono […] il monopolio dell’informazione e l’uso repressivo del potere culturale” (4). Una descrizione che ricorda la Megamacchina “tecno-socio-economica” analizzata negli anni Novanta da Serge Latouche, “un bolide che marcia a tutta velocità ma [che] ha perso il guidatore”, i cui effetti determinano “conseguenze distruttive non solo sulle culture nazionali, ma anche sul politico e, in definitiva, sul legame sociale, tanto al Nord quanto al Sud” (5). La principale arma usata dal Sistema per “uccidere l’anima” (l’identità) è una subdola forma di penetrazione culturale che omologa i costumi e, in conformità al vigente complesso economico, i consumi. Gli Stati Uniti, visto il loro carattere antitradizionale (è una nazione giovane nata dall’immigrazione e dal melting pot di popoli diversi fra loro) sono vittime stesse del Sistema da loro creato, che procede da solo per mezzo di una “classe tecnocratica cosmopolita” (manager, amministratori delegati, decisori finanziari) che dirige una politica ormai svuotata da ogni potere: “Contrariamente alle tesi marxiste, nessun ‘direttore d’orchestra’ più o meno occulto ci governa. Nessuna volontà coscientemente programmata anima l’insieme per mezzo di decisioni globali a lungo termine. Il potere tende a non aver più né ubicazione né volto; ma sono sorti poteri che ci circondano e ci fanno partecipare al nostro proprio asservimento. La ‘direzione’ delle società si effettua oggi al di fuori del concetto di Führung. Il Sistema funziona in gran parte per autoregolazione incitativa. I centri di decisione influiscono, tramite gli investimenti, le tattiche economiche e le tattiche tecnologiche, sulle forme di vita sociale senza che vi sia alcuna concertazione d’assieme. Strategie separate e sempre impostate sul breve termine si incontrano e convergono. Questa convergenza va nel senso del rafforzamento del Sistema stesso, della sua cultura mondialista, della sua sovranazionalità, così che il Sistema funziona per se stesso, senza altro fine che la propria crescita. Le sue istanze direttive molteplici decentrate, si confondono con la sua stessa struttura organizzativa. Imprese nazionali, amministrazioni statali, multinazionali, reti bancarie, organismi internazionali si ripartiscono tutti un potere frammentato. Eppure, a dispetto, o forse proprio a causa dei conflitti interni d’interessi, come la concorrenza commerciale, l’insieme risulta ordinato alla costruzione dello stesso mondo, dello stesso tipo di società, del predominio degli stessi valori. Tutto concorda nell’indebolire le culture dei popoli e le sovranità nazionali, e nello stabilire su tutta la Terra la stessa civilizzazione” (6). Il Sistema cancella i territori e le loro sovranità, modellandole così a immagine e somiglianza dell’unico sistema vincente, quello nordamericano: “Il mondialismo del Sistema non procede dunque per conquista o repressione degli insiemi territoriali e nazionali, ma per digestione lenta; diffonde le sue strutture materiali e mentali insediandole a lato e al di sopra dei valori nazionali e territoriali. Si ‘stabilisce’ come i quaccheri, senza tentare di irreggimentare direttamente, […] parassitando i valori e le tradizioni di radicamento territoriale. La presa di coscienza del fenomeno si rivela di conseguenza difficile. Parallelamente alla loro formazione ‘nazionale’ i giovani dirigenti d’azienda del mondo intero hanno oggi bisogno, per vendersi e valorizzarsi, del diploma di una scuola americana. Niente di obbligatorio in questa procedura; ma poco a poco il valore di questo diploma americano e ‘occidentale’ soppianta gli insegnamenti nazionali, la cui credibilità deperisce. Un’istruzione economica mondiale unica vede allora la luce. Essa veicola naturalmente l’ideologia del Sistema” (7).

Ergo, la nouvelle droite, grazie al volume di Guillaume Faye, de-ebraicizza e de-complottizza l’analisi sul mondialismo, anche se negli ambienti del radicalismo di destra il concetto continuava sovrapporsi alla retorica antigiudaica. Non è casuale che Orion, che nel decennio Novanta sarà Organo del Fronte antimondialista, nei primi anni di vita editoriale, e cioè fra il 1984 e il 1987 circa, userà ancora tematiche cospirazioni ste antigiudaiche pescate dai Protocolli dei Savi di Sion, denunciando alleanze occulte fra l’alta finanza, ovviamente ebraica, le organizzazioni massoniche con a capo il B’nai B’rith, e i numerosi circoli sionisti sparsi in tutto l’Occidente, descritti come “l’architrave del progetto mondialista” dato che sarebbero tutti “casa, borsa e Sinagoga” (8). Il sionismo e il mondialismo sarebbero quindi considerate le due facce della stessa medaglia: il sionismo è “una delle componenti più importanti […] del discorso mondialista” si legge in Orion, “il sionismo […] è genocida e razzista […] oggi l’unico vero razzismo esistente al mondo è quello praticato dal sionismo nazionale e internazionale. Un razzismo che affonda le sue radici nella storia, nella cultura e nella religione ma, certamente, l’unico vero e identificabile potere razzista e genocida” (9).

Col tempo i toni si sgrezzeranno, e anche se Orion continuerà a essere un’avanguardia del revisionismo (o forse è il caso di parlare di negazionismo) sull’Olocausto (10), presto lo sarà a livello continentale, grazie alla costruzione di soggetti transeuropei come il Fronte europeo di liberazione e Sinergie europee.

Il mondialismo è presentato come “un’ideologia, un progetto, una tendenza […] parte integrante di progetti variamente formulati da diverse organizzazioni tra di loro alleate e concorrenti al tempo stesso”; si afferma “che il Governo Mondiale è un progetto perseguito e non realizzato; che comunque queste organizzazioni hanno un potere enorme e controllano diversi Paesi attraverso mezzadri insediati nei governi, attraverso l’alta finanza, il sistema bancario, il sistema creditizio, l’infiltrazione in organismi come l’Onu, il Gatt, l’Unicef ecc.; esse controllano inoltre la totalità dei mezzi di informazione e cercano di agire in modo discreto per plasmare menti e condizionare caratteri; lavora per lo sfruttamento intensivo del Terzo Mondo; lavora attraverso il controllo geopolitico, geofinanziario, geoenergetico; lavora per distruggere culture e popoli, per omologare, omogeneizzare, appiattire, uniformare” (11). Nell’analisi economica fatta da Orion esistono degli attori, soggetti che comporrebbero le varie lobby oligarchiche che sviluppano il disegno mondialista, gruppi totalmente svincolati da ogni legame partitico e governativo e da ogni controllo pubblico, capaci di condizionare i “partiti mondialisti” che portano avanti tale progetto nella società civile, omologandola all’American way of life: “Il governo planetario, o come si desidera definirlo, va pensato come un insieme di attori ciascuno dei quali adempie a un ruolo ben preciso, e che si rapporta con gli altri senza vincoli burocratico-gerarchici, quando piuttosto secondo un equilibrio che assomiglia più a un concetto di interfunzionalità reciproca di diversi elementi” (12). Parliamo di organizzazioni multilaterali a sfondo economico-finanziario, come banche centrali, banche d’affari e investitori istituzionali, agenzie di stampa e media, agenzie di rating e, infine, club internazionali a sfondo politico. Nel primo caso fanno capo a organismi come la Wto, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, tutti organismi “mondialisti”, a cui si sommano l’Organizzazione di Bali per la supervisione bancaria, lo Iosco (Organizzazione internazionale delle commissioni nazionali emettitrici di titoli obbligazionari), l’Isma (International securities market association) e l’equivalente per i titoli obbligazionari, l’Iso, i quali, “lungi dal perseguire gli obiettivi dichiarati, ovvero la salvaguardia della libertà degli scambi commerciali, economici e finanziari, attuano, attraverso il costante governo dei flussi dei beni, delle monete e dei titoli finanziari un rigoroso controllo delle politiche commerciali e finanziarie dei singoli Paesi, a esclusivo favore di quelli occidentali, che possono così penetrare gli altri mercati del mondo senza dover soggiacere alla legge della reciprocità, cosa che minaccerebbe di rompere gli equilibri di forza e di potere acquisito esistenti tra le diverse monete” (13).

La Banca mondiale quindi, sorta per finanziare i Paesi sottosviluppati tramite risorse prelevate dai Paesi più ricchi (“non a caso”, nota Fraquelli, “il nome originale con cui sorse a Bretton Woods era quello di Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo”), non favorisce in realtà i Paesi finanziati, bensì le multinazionali lì presenti, ergo l’Occidente. Alcune di esse hanno dimensioni finanziarie e produttive superiori a quelle di Stati sovrani: l’azienda automobilistica Ford – registrava Orion – ha negli anni Novanta giri d’affari superiori all’ammontare delle entrate di Stati come la Norvegia e l’Arabia Saudita, mentre il colosso del tabacco Philip Morris vanta un volume di vendite il cui valore supera il prodotto interno lordo della Nuova Zelanda (14).

Tali risorse quindi, prelevate dalle economie deboli, servirebbero a sostenere gli investimenti delle multinazionali private presenti in tali Paesi. Chi favorisce la disuguaglianza economico-finanziaria sono le banche centrali come la Federal Riserve, la Bundesbank tedesca e, poi, la Banca centrale europea, tutti soggetti istituzionali che perseguono l’obiettivo di conciliare le esigenze dei mercati americano e tedesco verso gli altri “attori mondialisti”, come le banche d’affari; la quintessenza, se ci pensiamo, del processo di finanziarizzazione dell’economia, “perché senza alcuna definita collocazione geografica” e quindi “apolidi”, ma presenti in una fitta “rete globale” presente in tutto il mondo, realtà come Morgan Stanley, Goldman Sachs, Merill Lynch, Salomon Brothers e JP Morgan, per citare le più importanti, si muovono come “gestori delle interazioni tra le decisioni ‘politiche’ prese a livello di organismi multilaterali e specifici settori delle economie locali, quali per esempio le banche domestiche, i fondi d’investimento, i governi stessi (attraverso le privatizzazioni, tutte gestite dalle cinque banche menzionate) e gli enti territoriali. Di fatto queste banche rappresentano il lato ‘ufficiale’ degli orientamenti del governo mondiale, e hanno il ruolo di ‘guru’” (15).

Fondamentali poi i club internazionali politici, i quali ufficiosamente fungerebbero da cardine fra i vari “attori mondialisti”, quali la Trilateral Commission, il Bilderberg Group e il Club di Roma, a cui Orion dedica numerose analisi e, all’inizio, l’inserto Orion-finanza – diretto dal torinese Mario Borghezio, poi esponente della Lega Nord e tramite fra il Carroccio e il radicalismo di destra. Nell’ultimo fascicolo, il numero 4 del maggio 1986, Orion pubblica per la prima volta l’elenco dei membri della Trilateral Commission, organizzazione che prende il nome dalla teoria del suo ideologo, Zbigniw Brzezinsky, che teorizza la fine del bipolarismo indicando in “tre pilastri” – Usa, Giappone e Europa occidentale – gli attori di un progetto liberoscambista capace di avvicinare tali zone per poi unificare il sistema economico-finanziario. Grazie a pubblicazioni di questo tipo – nonostante persista una certa retorica antiebraica – Orion cerca di archiviare l’ormai vetusta e desueta teoria del ‘grande complotto’ a opera della “grande piovra ‘giudaico-massonica’ che manovrerebbe tutto. Descrivendo un vertice della Trilateral tenutosi a Madrid dopo la riunione del G7 a Tokyo a metà anni Ottanta, che vedeva riunite persone come David Rockfeller, Isamu Yamashita, Giovanni Agnelli, Zbigniew Brzezinski (ex consigliere di Jimmy Carter) e Robert McNamara, tutti interessati alla Spagna soprattutto dopo il suo ingresso nella Comunità europea per il suo ruolo strategico (“trampolino di lancio per la strategia mondialista americana”) per le sue relazioni coi Paesi arabi, il Nord Africa e l’America Latina, ruolo svolto precedentemente dal Giappone per l’Europa, Murelli scriverà: “Chi oggi si domanda come sia stata possibile l’espansione dell’industria giapponese in così breve tempo, trova in questa autorevole dichiarazione la risposta al quesito”. La Trilateral Commission “sta soppiantando le vecchie strutture mondialiste quali la Massoneria”. Infatti, continua Murelli, “è forse un caso che la politica finanziaria nazionale di questi ultimi tempi ha come chiodo fisso, per esempio, l’internazionalizzazione non solo dei capitali, ma anche e soprattutto delle imprese e della produzione? È forse un caso che se mentre colano a picco personaggi come Calvi e Sindona emergono i vari De Benedetti, Berlusconi, Agnelli ecc.? È forse un caso che proprio Agnelli si sia battuto affinché l’affare Sirwkoski fosse vantaggioso per un’impresa americana piuttosto che da un’impresa italiana? E ancora: è un caso che l’Avvocato sostenga l’acquisto di Alfa Romeo da parte della Ford, azienda automobilistica che attraverso la sua Fondazione – ma guarda caso! – assieme alla Lilly Endowment, alla Rockfeller Brothers Fund e alla Kattering Fondation ha, fin dall’inizio, costituito una delle principali fonti di finanziamento della Trilateral?” (16).

Le pubblicazioni della Società Editrice Barbarossa, contestando l’analisi complottista, inizieranno a identificare negli Stati Uniti il principale motore del mondialismo (contraddicendo così l’analisi di Guillaume Faye secondo cui tale processo di omologazione non presenterebbe “nessun ‘direttore d’orchestra’ più o meno occulto” che “anima l’insieme per mezzo di decisioni globali a lungo termine”), per il suo volere “la creazione di un unico governo o amministrazione (il Nuovo Ordine Mondiale), di un unico assetto politico, istituzionale e sociale (il liberismo), di un unico sistema di valori (individualismo-egualitarismo-dottrina dei Diritti dell’Uomo), e quindi di un unico insieme di costumi e di stile di vita (il consumismo) estesi a tutta la Terra e funzionali al dominio assoluto da parte delle forze politiche, economiche e culturali che lo incarnano: le élite della finanza mondiale!” (17). Si attacca l’Occidente, un sistema americanocentrico (una centralità dovuta al fatto che la stragrande maggioranza delle multinazionali e le più influenti lobby finanziarie hanno la loro sede legale negli Stati Uniti), anche se i suoi centri d’irradiazione sono policentrici e sparsi in tutto il globo. Infatti, “le imprese multinazionali – oltre l’80 per cento dei casi a sede statunitense – dominano il mercato delle principali derrate di base e degli altri settore chiave (macchinari industriali e agricoli, fertilizzanti, elettronica, ecc.)” (18). Gli ingredienti per la creazione di questo One World (il Nuovo Ordine Mondiale) uniformato all’American way of life sarebbero le “strutture tecnoeconomiche, l’ideologia universalista e la sottocultura di massa che potremmo definire – sottolinea Faye – ‘americano occidentale’”.

Per Gabriele Adinolfi “tutte le ideologie moderne sono mondialiste, dal liberalismo al comunismo alla socialdemocrazia. E ciò non si limita alle ideologie moderne: possiamo anzi dire che il reale scontro ideologico che ha caratterizzato gli ultimi diciotto secoli della nostra storia sia proprio quello tra l’ideale di mondialismo e l’idea di universalità. La divergenza fra questi è palese. La prima concezione è tipicamente immanente, fa capo a un’organizzazione materiale al contempo super e trans partes che si traduce immancabilmente in un modello uniforme sul quale debbono appiattirsi, deformandosi e spegnendosi per forza di cose, tutte le singole individualità e collettività. L’altra […] si fonda su di un’idea gerarchica e trascendentale rappresentata non da un apparato esclusivista (quali per esempio una Chiesa o il partito comunista) ma da un centro ideale che sia al contempo riferimento, fusione, sintesi ed elemento di trascendenza (quale fu a suo tempo l’imperatore o meglio l’idea di Impero) […] Custodendo gelosamente le singole differenze come altrettanti patrimoni, l’universalità le unisce e le salda esclusivamente in un’idea spirituale trascendentale, non in un modello culturale totalizzante come pretende al contrario il mondialismo […] Il mondialismo è infatti il frutto di un’idea monoteistica, totalizzante, di filiazione diretta dall’Antico Testamento. L’universalità, viceversa, è al contempo monistica e politeistica” (19).

Identificando nel monoteismo giudaico-cristiano la cultura principalmente responsabile della genesi del mondialismo, notiamo come il gruppo di Orion recuperi le suggestioni neopagane della nouvelle droite, però scevre da ogni rimando di tipo antisemita. L’altra peculiarità del mondialismo è il rifarsi all’“ideologia universalista”, espletata “sia attraverso l’utopia cosmopolita e pacifista alla Emergency oppure tramite lo sbrigativo pragmatismo yankee alla Bush”, una “moderna religione” laica che fa sua la dottrina dei diritti umani, “la suprema espressione dell’Egualitarismo”, una “tendenza storica nata e affermatasi per la prima volta nella storia con il giudeo-cristianesimo e in seguito dispiegatasi storicamente nelle sue varianti laiche (democrazia liberale, comunismo, mondialismo ecc.)”, che impone una “morale presuntamente universale [che] fornisce l’armatura ideologica a un neo-colonialismo che al posto del ‘fardello dell’uomo bianco’ ha oggi come giustificazione un devastante cocktail di angelismo e ipocrisia. […] La distruzione dei popoli passa anche da qui, dall’imposizione a livello planetario dei ‘valori’ occidentali e dalla conseguente disintegrazione di ogni legame organico, di ogni tradizione particolare, di ogni residuo di comunità – tutti ostacoli alla presa di coscienza della nuova ‘identità globale’ da parte del cittadino dell’era della globalizzazione. […] rigettare la dottrina dei diritti dell’uomo non significa parteggiare per lo sterminio, per l’ingiustizia o per l’odio. […] Il riconoscimento dei diritti umani, di per sé, non fonda proprio nulla, se non quel tipo di giustizia e di libertà che, tautologicamente, si trovano espresse… nella dottrina dei diritti umani! Malgrado il fatto che i sostenitori di tale dottrina continuino a pensare di aver ‘inventato la felicità’, occorre sostenere con decisione che un’altra giustizia, un’altra libertà, un’altra pace sono possibili. Opporsi ai diritti dell’uomo significa rifiutare una morale, un’antropologia, una certa idea dei rapporti internazionali e della politica, una visione del mondo globale figlia di una tendenza storica ben individuabile” (20).

Nella visione liberale – ‘figlia’ dell’illuminismo e della rivoluzione del 1789 e ‘madre’ del mondialismo – l’uomo è solo un individuo e se condariamente è membro di una cultura/comunità. Nell’idea tradizionale l’uomo è concepito olisticamente come parte della comunità organica. A una visione liberale fondata sui diritti dell’uomo, si contrappone una visione antimondialista fondata sui diritti dei popoli, delle etnie e delle comunità, incarnata dall’Euthereos, concezione indoeuropea dell’appartenenza, dove l’uomo è libero se è libera la sua comunità tradizionale: “Al leitmotiv dei diritti dell’uomo noi opponiamo la visione sinfonica secondo cui siamo dei popoli che rifiutiamo di lasciarci considerare un gregge portato verso gli altari o verso i mattatoi della società mercantile […] Per quanto sembrino lontani dalle nostre preoccupazioni materiali, è con la carne e con lo spirito dei territori, dei clan, delle tradizioni e delle patrie, delle comunità e dei gruppi intermedi che bisogna ricollegarsi, poiché sono loro che conservano al mondo le sue varietà, la sua densità organica, la sua poesia, e innalzano ancora arcipelaghi di resistenza nei confronti dell’Impero della ragione totalitaria ammantata di morale che favorisce, volente o nolente, la colonizzazione delle terre da parte dei soli interessi tecno-economici e la trasformazione dell’uomo in semplici relais-robot dei circuiti di produzione-consumo” (21). L’etnocidio e la successiva costruzione di una società multietnica attraverso l’immigrazione e il melting-pot passerebbe dall’imposizione di un’etica universale che omologherebbe il tutto sotto un unico modello, edificato per gradi, “estirpando ogni precedente identità (e quindi differenza). La cancellazione delle differenze è a priori trascendentale, la condizione di possibilità della ‘società’ multirazziale. Ma con cosa riempire questo vuoto? Ricorrendo necessariamente a uno strumento astratto (e quindi ideologico). E allora: il diritto è la risposta; dunque accomunare ogni uomo attraverso il diritto” (22). E se questo diritto nasce con la Modernità, il problema, quindi, è essa, tout court. In ossequio a Evola, uno dei testi più emblematici di Carlo Terracciano è Rivolta contro il mondialismo moderno, dove l’autore vede la tradizione come il baluardo contro la cosiddetta ‘sovversione’ mondialista, un atto “rivoluzionario” in quanto capace di contrastare il sistema che sovverte le naturali radici dei popoli. Infatti, “se la conservazione è il contrario della Tradizione che è rivoluzionaria, la Sovversione, come tutti i fenomeni di ribellismo del mondo moderno, è una rivoluzione di segno contrario, una Contro-rivoluzione, sempre nel senso tradizionale del termine. Essa infatti, nel momento stesso in cui pretende di distruggere le forme del presente (e questo è il suo aspetto più positivo) lo fa nel nome e nel segno della ‘modernità’, come catego ria mentale e spirituale […]. La sovversione tende a ribaltare le forme del passato per conservare l’essenza del presente, cioè il modernismo antitradizionale, cercando così di arrestare il vero processo rivoluzionario che chiuda un ciclo e ne apra uno nuovo. È insomma un’altra forma della conservazione […]. Nel mondo moderno, alla fine di un ciclo, ogni distruzione del passato e del presente è propedeutica al compiersi del ciclo storico medesimo” (23).

 

Un antimondialismo che non è anticapitalismo

L’analisi antimondialista, nonostante tocchi punti interessanti, è più debole rispetto a quella anticapitalista marxiana: non mette infatti in discussione il capitalismo e contesta le dinamiche globali e transnazionali solo nella sfera culturale, ergo sovrastrutturale. Insomma, tolta la retorica antiebraica, rimane, aggiornata, la critica dei vecchi fascismi al capitalismo apolide – e in tal caso improduttivo perché nato dalla speculazione, dall’usura – da contrapporre al capitalismo ‘sano’, quello locale e produttivo, dove il motore è il ‘produttore’, termine che sottintende sia il lavoratore che l’imprenditore in nome di una ricetta corporativa, la so cializzazione fascista della Rsi, che Orion, archiviato il nazionalcomunismo, riscopre negli anni Duemila quando diventa un faro per l’area ‘non conforme’ (cioè CasaPound). Non casualmente Gabriele Adinolfi, nel marzo 2005 scrive che “la Socializzazione rappresenta indiscutibilmente il compimento estremo della rivoluzione sociale mussoliniana. Economicamente essa rappresenta il punto di rottura con il capitalismo. Non è assolutamente vero che durante il Ventennio l’economia fascista sia stata capitalista: tutt’altro. Ogni intervento legislativo attesta la continua aggressione, da parte dello Stato nazionale e proletario, allo strapotere privato. Il Corporativismo, all’inverso di quanto ha voluto sostenere la propaganda marxista, ha rappresentato un’esperienza controcorrente rispetto al capitalismo, incentrata sull’organicità sociale. Il capitalismo, ovviamente, esercitò da sempre un’azione di contenimento rispetto alla rivoluzione autoritaria del Duce; sicché, inchiodato in una logica di azione/reazione, il Regime aveva finito col riuscire a imporre agli industriali un rapporto di armonia tra lavoro e capitale, tra società e individualità. In questa logica di armonia (contrassegnata dal procedere inesorabile dell’azione sociale del Capo) si mantiene il rapporto capitale-lavoro durante il Ventennio” (24). Una lettura revisionista ed edulcorata del regime mussoliniano quella di Adinolfi, che ‘dimentica’ le origini antioperaie dello squadrismo mussoliniano e la prima fase deflazionista e neoliberista del regime, opportunisticamente archiviata dopo la crisi borsistica del 1929, che colpì il capitalismo mondiale (a esclusione dell’Unione Sovietica) e obbligò il capitalismo, per resistere all’urto, a ricorrere al sostegno dello Stato, imponendo al fascismo l’attuazione di riforme corporativiste. Riforme che, con la Repubblica Sociale, spinsero l’ala populista del fascismo repubblicano a radicalizzarsi, ma solo alla fine (verso il dicembre del 1944) col boicottaggio degli occupanti/alleati tedeschi (il che dovrebbe far riflettere quando oggi l’estrema destra si erge ad alfiera del ‘sovranismo’). Insomma, il corporativismo solidarista auspicato in risposta al mondialismo, è solo una governance del capitalismo.

C’è però da chiedersi perché tali riflessioni, come notava Fraquelli, paiono più innovative, più ‘rivoluzionarie’. Va detto che esse vengono elaborate in una fase cruciale di cambi paradigmatici in seno al capitalismo globale, ovvero a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, quando avvengono dei profondi mutamenti di natura strutturale, dato che, conclusi i famosi Trenta gloriosi (1945-1975), si ha l’avvio “della società post industriale, caratterizzata dalla fine del modello fordista e della centralità operaia, dallo sviluppo del terziario avanzato e dalla prima globalizzazione finanziaria, con la deindustrializzazione, le delocalizzazioni, i primi flussi migratori. Prende il via la rivoluzione conservatrice neoliberista degli anni Ottanta, che non coinvolgerà solo Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Gran Bretagna, ma muterà anche la genetica della sinistra. È il caso del francese François Mitterand e, in Italia, del Psi di Bettino Craxi” (25), una rivoluzione neoliberista che spingerà i settori più dinamici della destra culturale a dare una lettura più profonda rispetto a quelle date precedentemente.

La fase corrisponde non solo all’abbandono del pensiero marxiano da parte della socialdemocrazia, ma pure alla sua debolezza in seno ai partiti comunisti. Se negli anni Settanta era ancora egemone, è negli anni Ottanta “che si registra l’avvio della fase discendente della cultura marxista in Italia. Questa viene attaccata ‘dall’esterno’ (gli apparati ideologici dello Stato borghese), ‘dall’interno’ (vengono a galla le tendenze interne al Pci che puntano a una sua trasformazione socialdemocratica o si rafforzano le tendenze che prendono le distanze da Lenin o dal marxismo orientale) e ‘di lato’ (sorgono riviste e centri studio per influire sul dibattito interno del Partito)” (26), con l’epilogo odierno di una sinistra radicale comunista (o postcomunista?) che attua nei primi anni Novanta la sua rifondazione su basi ideologiche fragili ed eclettiche, che pescano più dalla nuova sinistra anni Sessanta.

Una delle motivazioni di tale crisi, rileva il filosofo marxista Domenco Losurdo, è da ricercare dal fatto che la sinistra italiana e occidentale risulta assente, incapace di rendersi realmente indipendente dal sistema imperialistico, quando non colpevole di aver spianato la strada a un neoimperialismo di ritorno sotto forma di guerre di esportazione della democrazia occidentale, veicolando un pregiudizio eurocentrico e inconsciamente razzista. Secondo Losurdo questo avviene perché s’è creata una dicotomia fra marxismo occidentale, “che ha sviluppato una sua personale riflessione separandosi dallo sviluppo del pensiero marxista nel resto del mondo, un marxismo occidentale che ha influenzato i movimenti della cosiddetta ‘nuova sinistra’ e il filone sviluppatosi dal ‘68 in poi, divenendo egemone dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Un pensiero, i cui cantori odierni sarebbero Negri, Hardt, Zizec e prima ancora Foucault e Arent, che ha rimosso dalle sue riflessioni il nodo della lotta antimperialista di matrice leninista e quello sullo sviluppo delle forze produttive, come invece hanno continuato a fare quei movimenti affermatisi fuori dall’Occidente, che si sono posti l’obiettivo di fare uscire dalla miseria e dalla fame centinaia di milioni di essere umani” (27). Tutti intellettuali – pensiamo alla fortuna entro Rifondazione comunista o nell’area noglobal del libro di Toni Negri e Michael Hardt Impero e Moltitudini – che non contestavano la globalizzazione in quanto tale, ma solo la sua governance èlitaria, auspicandone, come notava Fraquelli all’inizio, una dal “volto umano”, cioè gestita dal basso.

Sta di fatto che la Kulturkritik delle nuove destre metapolitiche – una versione aggiornata della Konservative Revolution sviluppatasi a Weimar fra le due guerre e del filone antimoderno e aristocratico nietzscheano – cerca di rielaborare se stessa in risposta e reazione alla post modernità. Se la destra, con un intellettuale atipico come Alain de Benoist, ha cercato di uscire dal gorgo rielaborando la propria cultura, così non ha fatto la sinistra, che la propria cultura l’ha rinnegata. È in questo spazio che la nouvelle droite ha avuto gioco facile a sviluppare la sua strategia culturale. Ed è su questo terreno che la sinistra deve riflettere, per non perdere la battaglia sociale che caratterizzerà il futuro scontro politico.

Altre Rassegne