Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Le cose di prima” di Giuseppe Aloe, Rubbettino, 2023
Le cose di prima sono state vittime del divenire. Mai lo stesso tempo, mai la stessa forma, perché sempre tutto muta; persino i ricordi che crediamo indelebili e solo nostri si trasformano. E cosa di prima è la storia raccontata da un adulto che vuole parlare degli anni della sua adolescenza, ma ormai è grande e le parole che userà per imprimere su carta i suoi ricordi sono quelle di oggi, quelle di prima infatti sarebbero state sicuramente diverse e avrebbero avuto anche un altro significato.
Allora l’uomo che oggi è diventato fa una scelta: si baserà solo sui fatti. Secondo lui, quelli non cambiano mai. Purtroppo, non è così; di sicuro è cambiato lo spirito con cui vengono rivissuti. Potrebbero essere diventati banali, quindi, per essere riaccettati, necessiteranno di una nuova lettura, quindi andranno un po’ edulcorati.
Quest’uomo ci prova a riunire i pezzi e viene fuori qualcosa di assurdo, ossia una adolescenza dominata dalla rabbia, dalla violenza alimentata dalla relazione extraconiugale di sua madre con un altro uomo. Una storia che i due consumano davanti a lui, davanti al padre-marito, sotto lo stesso tetto. E questo smuove leciti interrogativi nel ragazzino, primo fra tutti: perché al padre sembra andare bene?
Nel mezzo succedono cose spiacevoli. Questo ragazzino sente i due amanti mentre scopano, mentre ridono, mentre inventano giochi erotici, manco avessero letto un libro di De Sade. E nella mente dell’adolescente si formano traumi, idee strane, ma anche lui non ha davvero il coraggio di prendere la questione di petto. Solo una volta chiederà alla madre perché sta facendo tutto questo. Lei risponderà che lo fa per ritornare a vivere, perché il padre e lui l’hanno ammazzata dentro.
Ecco allora che il punto di vista cambia, ma non la rabbia che il ragazzino cova dentro, soprattutto quando è spettatore degli atteggiamenti violenti che i due amanti hanno verso il padre, il quale osserva come se dovesse espiare qualcosa. Anche lui, però, subisce delle violenze da quell’uomo che si è introdotto in casa loro e che si è impossessato della madre.
Et voilà, tutto si trasforma in violenza verbale, fisica, concettuale. Ognuno trama vendetta, ma una forza mantiene lo status quo. Sembra una allegoria sul Katechon, che tiene a bada l’Apocalisse, perché ancora il male non si è del tutto compiuto, perché Satana non deve ancora manifestarsi, perché ancora Cristo non deve venire a giudicare i vivi e i morti, ma anche perché l’Apocalisse è il momento in cui senza pietà saranno separati i buoni dai malvagi e, siccome non siamo tutti totalmente buoni, ognuno di noi teme di ricevere una punizione o, peggio ancora, il fuoco eterno.
Giuseppe Aloe ci racconta questo e altro. Il suo romanzo gioca tra finzione e realtà, tra menzogna e verità; è quindi pura letteratura perché ne incarna l’essenza in ogni sua pagina. È un romanzo ricco di simboli, che chiede al lettore di giocare con libere associazioni mentali per costruire una storia nella storia che renda ogni lettore anche autore.
Per esempio, mentre l’ormai adulto, ex adolescente, scrive il suo romanzo, si interfaccia con la sua mantide religiosa che, come si sa, decapita l’esemplare maschio che l’ha fecondata e lo fa proprio mentre questo è unito a lei. Questa mantide sparisce nel momento in cui arriva la donna che poi sarà la compagna di questo uomo-ancora-adolescente che ha necessità di raccontare, forse una menzogna, forse solo la verità.
E così, l’ormai ex adolescente viene accecato sulla strada di Damasco. Ritroverà la vista?