Di per sé, l’idea è magnifica, eloquente – l’esito è imbarazzante. Copertina di “D”, inserto settimanale de la Repubblica. Dedicato a cinque scrittrici – perché proprio cinque? Per simulare la cinquina dello Strega, credo, che stregoni. La copertina è magnifica – almeno non è dedicata a “Jennifer Lopez splendida cinquantenne: la foto in costume fa impazzire i fan” (leggo nella pagina digitale di “D”, notizia da gourmet del gossip).
Per di più, rimarca la mia idiozia. In copertina, infatti, ci sono Teresa Ciabatti, Rosella Postorino, Nadia Terranova, Veronica Raimo, Claudia Durastanti. Tutte scrittrici – tranne quest’ultima – che in diversi modi ho stroncato: secondo me, autrici di romanzi pretestuosi, pretenziosi, presuntuosi, brutti. Piuttosto, mi pare imbarazzante – per loro, più che altro – il titolo che le cerchia: “Star System Italia. Brave, di successo, tradotte all’estero. Sono le scrittrici che il mondo ci invidia”.
A parte la scorrettezza giornalistica – cosa si intende per mondo? Perché usare quella parola odiosa, invidia? – comunque perdonabile (il titolo non dice la verità dell’articolo, deve accattivare, accalappiare l’allocco), non mi va il concetto di “star system” legato alla letteratura. Quelle cinque scrittrici, immagino, sono ritenute “da invidia” per merito della loro intelligenza, personalità, inadempienza alle mode vincenti, indipendenza al sistema vigente, perché al “successo” hanno sostituito l’eccesso di talento.
Al contrario, far parte dello “star system” – in letteratura conta solo il divismo del genio – significa essere servi del potente, proni ai desideri aziendali, inginocchiati al “sistema… volto alla costruzione, al lancio e alla promozione delle star per provocare un fenomeno di attrazione sul pubblico” (cito dalla Treccani). Non credo che questa cinquina di scrittrici – che pure a me non piacciono – faccia parte dello star system. Magari mi sbaglio. Magari il sogno realizzato di queste scrittrici è farsi dare della star.
In ogni caso, per gioco, a rischio di risultare un idiota cubico, un tetragono cretino, mi sono messo a stilare la mia personale cinquina di scrittrici bravissime, incapaci di appartenere, per davvero, per istinto anarchico e statura di disciplina, allo star system. Per altro, già l’idea di fare un’ammucchiata di cinque scrittrici è maleducato: l’artista è uno o nessuno, è lui, il singolo, la via e la verità estetica, incompatibile con altri – non per snobismo: l’arte è misantropa, l’artista pretende devozione meticolosa –, inconciliabile al’happy hour.
E poi, insomma, non è che inviti cinque donne a cena: scegline una, l’assoluta. Tuttavia: di scrittrici brave, bravissime, aliene allo star system, poche ma buone, ce ne sono. Basta diseducarsi al mercimonio editoriale, non restare chini alla classifica delle vendite, non imbambolarsi alle luci della premiologia nostrana, ridicola. Ecco la mia cinquina, insomma. Titolo. “Antisistema Italia. Geniali, feroci, inadatte ai premi e alle passerelle. Le scrittrici che sfuggono a ogni criterio editoriale”. Eccole.
Sonia Serazzi. Incapsulata in Calabria, la Serazzi avvia una specie di danza narrativa malinconica e crudele, da strega che colleziona le lingue dei santi per farne un florilegio di nacchere e convocare a pranzo i morti. Il cielo comincia dal basso (Rubbettino) è libro di crudele splendore, costruito per aggiunta di lapidarie lamine orfiche, epitaffi al giorno. La povertà è preziosa, la grammatica scombina ciò che è desto all’oblio: questo libro proviene da un Sud secolare, non è questione di latitudine ma di longevità. “Nella notte fantasticai che sarei rimasta per sempre ad abitare nel mio vicoletto con sopra le stelle, e decisi che il mondo non lo volevo, tanto alla fine gli uomini te lo piazzano sempre in cucina, dentro il salotto o in camera da letto, come un televisore in regalo”.
Veronica Tomassini. Santa alla scrittura, eremita in tutti i precipizi, con una lingua che sutura la vita – e la ulcera – Veronica Tomassini mi sembra una Veronica Giuliani della catacombale periferia. Il suo talento esagitato ha dato vita a libri importanti come Sangue di cane, Christiane deve morire, L’altro addio e Mazzarrona, che avrebbe dovuto esplodere allo Strega solo che, appunto, la Tomassini non ha santi in Paradiso, è lei la santa, non ha le stimmate da divetta da star system. Ho visto la stregoneria di Veronica da vicino, in prossimità di verbo: la sua energia narrativa – eppure, pare così fragile – è dirompente (quanti libri ha scritto, quanti ne sta scrivendo?, fosse in Francia, in Germania, in Spagna, sarebbe un fenomeno editoriale), continua, con feroce semplicità, a salvare tutto ciò di cui dice, uccidendosi. Come fanno i grandi scrittori.
Tiziana Cera Rosco. Generata alla poesia – libri importanti come Il sangue trattenere, Il compito, Dio il Macedone – Tiziana Cera Rosco è una scrittura vivente, ha degenerato la letteratura nel proprio corpo, slanciando una narrativa scultorea e una leggenda performativa che altera il verbo in fatto. Ha generato qualcosa di nuovo, che media Rilke all’ossario, che incunea Kafka in un groviglio di urla e di erbe. In sostanza, è l’esattezza senza commento, una parola-ordine, che fa ordine. Non ne emergi sano, ma in pericolo. Tornata al libro – come salterio – con Corpo finale.
Laura Pugno. Di algido genio, inafferrabile, non un trofeo editoriale ma uno squarcio, romana, direttrice, dal 2015, dell’Istituto italiano di cultura a Madrid, Laura Pugno è eccellente poeta – Bianco, I diecimila giorni, I legni – e romanziere di anomala meraviglia. Tra Agota Kristof e Dionigi l’Areopagita, la Pugno anatomizza il miracolo, disseziona il mostruoso: La metà di bosco, La ragazza selvaggia, Sirene (“Di solito docili come vacche, le femmine di sirena si rivelavano stupendamente feroci alla fine della monta. Non appena cessato l’estro che le manteneva narcotizzate e placide, alla mercé dei maschi, le femmine li avrebbero uccisi e in parte divorati”), tutti in catalogo Marsilio, sono piccoli classici di una narrativa postumana, che travolge volti, cifre, connotati.
Isabella Santacroce. Sottomissione all’incanto, i romanzi della Santacroce vampirizzano i leopardati luoghi comuni della letteratura italiana. Costruisce un mondo, la Satacroce. Un incanto. Di cui venera le chiavi di volta, le svolte, i tabù. “Non c’erano mattoni gialli, non campi di papaveri dove svenivi nel sonno, non la Città di Smeraldo, né fiumi né zattere. Non streghe, mongolfiere, cicogne, non c’era più niente, c’era la vita di tutti, e la poesia impiccata al soffitto” (da Supernova, Mondadori, 2015). Come una bibbia abbacinante, che abbraccia l’altro lato dell’uomo, una sevizia al buoncostume dei romanzi col tutù, la Santacroce va letta come si cavalca la tigre blu di Borges, senza dottrina, senza mani. Inventa lingue e mondi, dalla fluorescenza pop alla mistica liberty, la Santacroce – e sputtana lo star system dell’editoria trionfante: l’ultimo libro, La Divina, se l’è stampato da sé, in edizione di lusso, per i propri tipi, Desdemona Undicesima Edizioni. Divina.
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