Da Officina della storia
Giuseppe Ghigi, critico cinematografico autore di saggi sul cinema italiano e monografie di registi e attori, nel volume Le ceneri del passato ripercorre le figure, le simbologie, i cliché cinematografici diventati, nel tempo, parte dell’immaginario collettivo sulla Grande Guerra. In cent’anni, sono stati realizzati un migliaio di film sul primo conflitto mondiale ma nessuno di essi è riuscito, paradossalmente, a metterlo davvero in scena: persino i cinegiornali d’epoca, per ragioni tecniche e di sicurezza (cineprese voluminose, l’impossibilità di stare in prima fila, ecc) sono costretti, in realtà, a ricostruire gli eventi, a simulare, a contraffare. Il visibile dell’immane tragedia del Novecento parte, dunque, sin dalle origini come fiction e narrazione: il cinema rappresenta, e rappresenterà, la guerra parafrasando pagine di memorie e romanzi autobiografici o seguendo modelli ritenuti “realistici”. Scrive Gian Piero Brunetta: “I primi registi (…) sembrano riprodurre sullo schermo l’iconografia delle battaglie napoleoniche e di quelle di secessione piuttosto che sforzarsi di percepire la grande novità del conflitto”. La Prima Guerra Mondiale non muove più eserciti geometrici con assalti all’arma bianca o cavalleggeri con la spada sguainata: ora dominano l’artiglieria e i corpi finiscono polverizzati. Il cinema, se davvero vuole restituire la realtà, deve capire che dare ordine al caos e costruire linee prospettiche rinascimentali o adottare lo sguardo onnisciente della pittura di battaglia ottocentesca significa raccontare un combattimento d’altri tempi. Dove regna la confusione più totale, è necessario un montaggio cubista o surrealista. La deframmentazione dello spazio visivo-temporale è testimoniata anche dall’esperienza del primo giorno di combattimento di uno storico come Marc Bloch:.” Non dimenticherò mai il 10 settembre 1914. I miei ricordi di questa giornata non sono, tuttavia, precisi. (…) Formano una serie discontinua di immagini, come una pellicola cinematografica che presenti, qua e là, grosse lacerazioni e di cui si possano invertire alcune scene, senza che uno se ne accorga.” Le linee geometriche delle battaglie settecentesche kubrickiane combattute da Barry Lindon (1975) sono divenute impossibili in una guerra che – come osserva Léger – “divide, in qualche modo, un brav’uomo in mille pezzi, spedendoli ai quattro punti cardinali.” Le avanguardie sono più avanti nel sentire e nel costruire il nuovo paradigma visivo ma esse costituiscono una minoranza e la loro ricerca confluisce, solo in parte, nel cinema. La dissoluzione dello spazio tradizionale richiederebbe la rinuncia alla forma “accademica”, incentrata sul campo lungo, la panoramica, la carrellata aerea a favore di una forma “altra”, con i campi di ripresa ravvicinati, l’obiettivo ad altezza di terreno, il montaggio discontinuo ma ciò avviene solo in rari casi. La frammentazione della battaglia non impedisce, però, la distinzione dei campi: il disordine è grande ma, da un lato – non spaziale, bensì mentale – troviamo i “nostri”, dall’altro i “nemici”. Nei combattimenti, il campo avverso non è, sostanzialmente, mostrato: è solo il presupposto per creare la necessaria opposizione e, soprattutto, per tentare di costruire un’identità nazionale. In Orizzonti di gloria (1957) di Kubrick i nemici, rintanati nel loro “Formicaio”, non si vedono mai, quasi fossero entità metafisiche. Il nemico è, per definizione, l’ “Altro”: noi siamo tutti da questa parte, il nemico sta dall’altra. Noi siamo individui con nome e identità personali, il nemico è soltanto un’entità collettiva o, in alternativa, è il barbaro violento, massacratore di donne e bambini, autore di atrocità inaudite. Si produce e si cristallizza, così, un corpus di rappresentazioni del nemico che dà al conflitto un senso profondo, seppur irrazionale (il nemico non è buono come noi), e genera una pulsione sterminatrice. L’archetipo del nemico austro-tedesco, del “boche” malvagio, cinico e freddo è impersonato, negli Stati Uniti, da Erich von Stroheim: dopo la sua apparizione in Cuori del mondo (1918) di Griffith, in cui impersona il colonnello von Strom, l’attore ha difficoltà a girare per le strade di Hollywood (“La gente pensava che io fossi nella realtà come apparivo sullo schermo e sinceramente credeva che bevessi sangue di bue per prima colazione…”) . Negli anni del Fronte popolare francese, il comunista Jean Renoir utilizza in modo particolare l’archetipo “Stroheim malvagio boche” ne La grande illusione (1937) : il cliché del tedesco freddo e impettito si capovolge, qui, a fini pacifisti. La morale del film è dimostrare che tutti gli uomini sono soltanto uomini e non esseri geneticamente violenti! La pellicola di Renoir è presentata alla Mostra del Cinema di Venezia insieme a Patrioten del filo-nazista Karl Ritter: da una parte c’è chi cerca di costruire la difficile fraternizzazione dei popoli, dall’altra chi non riesce a vedere, nel nemico, l’uomo e sa soltanto rivendicare il valore dell’eroismo cieco ed autodistruttivo. L’Europa cinematografica si avvia, così divisa, alla Seconda Guerra Mondiale. E’, questo delineato finora, soltanto uno dei tanti percorsi che il libro di Ghigi permette di compiere : intrecciando cinema e storia, ma anche arte e letteratura, l’autore, coerentemente con il titolo scelto, dimostra che ogni film è la cenere del presente e del passato cioè è figlio di una memoria e, contemporaneamente, contribuisce a crearla. Allo storico, specie di “orco” che, secondo Marc Bloch, si getta ovunque senta l’odore della carne umana, appartiene, non solo, il compito di catalogare i materiali, collocarli, verificarne l’autenticità, comprenderne l’uso e la funzione ma anche la responsabilità di dirimere la distinzione ontologica tra vero e falso, questione complessa, specie in un contesto come questo.
di Mariella Cruciani
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