dal Corriere della Alpi, Il Mattino di Padova, La Nuova di Venezia e Mestre, La Tribuna di Treviso del 16 Giugno
L’anniversario della prima guerra mondiale sta portando una ripresa di studi che investono molti aspetti della Grande Guerra. Non sfugge il cinema: quel conflitto fu il primo a essere narrato visivamente. I cinegiornali, nati nel 1908, diedero spazio a immagini e visioni che ricostruivano le imprese di questo o di quell’esercito. O meglio, di quello che le gerarchie militari volevano si vedesse. La fiction successiva ha prodotto in un secolo oltre un migliaio di film: un grande materiale iconico su cui indaga ora il volume di Giuseppe Ghigi, “Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande guerra” (Rubbettino, 16 euro). Il cinema, che si era fatto sorprendere spiazzato da un conflitto moderno e insieme antico, cercò poi di coltivarne la testimonianza in modo mitico. A partire dai preparativi, l’entusiasmo giovanile eccitato da maestri come il professore tedesco di “All’Ovest niente di nuovo” di Milestone (1930). Ma anche le prime critiche manifestate in “Per la patria” di Abel Gance (1919). Odi film pacifisti come “Niemandsland” (1931) che i tedeschi nel ’33 ritirano, bruciandone le copie. Gli anni Venti vedono una serie di film che resteranno famosi, da “La grande parata” di King Vidor (1925) a “All’Ovest niente di nuovo” di Lewis Milestone e “Westfront” di Georg W.Pabst (entrambi del 1930), nei quali eroismo e fragilità dell’uomo si mescolano con la dimensione meccanica della guerra, bombe, esplosioni, incursioni aeree. Due anni dopo Ernst Lubitsch prende le distanze da una guerra atroce, in “L’uomo che ho ucciso”, con il risveglio critico verso la strage: per avere qualcosa di simile in Italia occorrerà aspettare Mario Monicelli e la sua “Grande Guerra”: è il 1959 e il film vince il Leone d’oro a Venezia, ex aequo con un altro film discusso, su fascismo, collaborazionismo e Resistenza, “Il generale Della Rovere” di Rossellini. Ma Ghigi che prima di tutto è un critico, pur di formazione storica, non perde di vista l’assunto estetico del cinema. E allora spazio anche all’analisi, a confronti che investono anche opere completamente diverse, come il kubrickiano “Full metal jacket”. O l’attenzione verso “l’apocalisse dei corpi” che solo il cinema – in particolare quello francese – ha avuto il coraggio di mostrare negli ultimi vent’anni. In “Capitan Conan” (1996, Bertrand Tavernier), ad esempio, scrive Ghigi, “non si muore da eroi, ma casomai da assassini. È questa parte della ricerca dello studioso veneziano che ha i crismi della novità maggiore, così come quella che riflette sulla veridicità dei cine giornali. «È lecito» si chiede Ghigi, analizzandone una sequenza «considerarla falsa, o sarebbe più corretto definirla una sorta di fantasma verosimile?»
di Michele Gottardi
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