Quando ho saputo che Rubbettino aveva deciso di pubblicare in una nuova edizione delle opere di Rocco Carbone, il primo pensiero è che fosse una bellissima iniziativa. Non ricordo Rocco, che aveva lasciato Reggio Calabria quando ero troppo piccolo per serbarrne delle memorie, ma conoscevo bene la sua famiglia.
Una famiglia di persone per bene che per anni ha vissuto nel mio stesso stabile all’epoca in cui sono stato prima bambino e poi adolescente. Di loro ricordo l’estremo garbo, le buone maniere, quella ritrosia che deriva da un senso di timidezza misto a al pudore, la dignità.
Suo padre lavorava alle poste e sua madre era stata per anni maestra nella mia stessa scuola elementare. Venivano da un piccolo paese dello Jonio reggino, Cosoleto, e di quel paese da cui erano emigrati negli anni Sessanta portavano con loro l’educazione e l’umiltà.
Per quanto, documentandomi, abbia letto da qualche parte di uno scrittore rigoroso e dal carattere difficile, penso a lui come un figlio della sua terra, duro e caparbio come i calabresi sospesi tra mare e montagna, partito a Roma per laurearsi e finito a Parigi con un dottorato di ricerca, negli anni in cui partire significava davvero staccarsi, privi di internet e dei social network che, con tutti i loro limiti, consentono un’emigrazione più morbida.
E, come molti calabresi fuori sede, aveva fatto la sua fortuna, come studioso, come ricercatore, come critico letterario e infine come narratore via via apprezzato da pubblico e critica.
E quando ho comprato ed iniziato a sfogliare il suo L’Assedio, ho ritrovato nella sua penna molto di quella Reggio che non nominava se non con una laconica R puntata. Non si tratta di un libro autobiografico, quanto piuttosto di un lavoro che scandaglia l’animo umano messo alla prova in condizioni di emergenza, muovendosi tra gli individui e le loro dinamiche di socialità.
C’è una città colpita da uno strano fenomeno atmosferico, una tormenta di sabbia simile alle piogge di terra sospinte dal vento di scirocco che i reggini conoscono bene, quando da Sud viene trasportata la sabbia del Sahara: verranno sconvolte in un crescendo chirurgico, lento e crudo, le regole della comune convivenza, delle relazioni cortesi e superficiali tra vicini di casa, tra abitanti di una stessa città, mettendo alla prova l’animo umano e il comune senso del bene e del male, attraverso il comporsi e lo scomporsi di alleanze e conflitti tra individui e gruppi di persone.
È attraverso la storia di Saverio, Rosaria, Angela, Abramo, Lina, Demetrio e la loro piccola figlia, di padre Retez che Carbone mette in fila in uno spettro ampio e variegato, la solidarietà tra uomini e il suo opposto, il bestiario delle umane pulsioni legate a istinti di sopravvivenza brutali, il discrimine tra il ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
E così una giornata che doveva nascere e morire nella solita routine tra sveglia, colazione, passeggiata col cane, lavoro, rassicuranti ritmi familiari si trasforma nella porta verso una tragedia che è dei singoli e al tempo stesso della collettività.
La città di R., prigioniera di una tormenta che la bloccherà per mesi, diventerà teatro di una lotta per la sopravvivenza dove gli abitanti rimasti, deprivati perfino di luce e acqua corrente, si abbandoneranno a ogni sorta di stratagemma pur di resistere e sopravvivere.
L’impensabile si affermerà su scontate certezze che, col passare dei giorni e l’aumentare delle difficoltà, annacqueranno il confine tra il bene e il male.
I meccanismi di solidarietà troveranno il loro speculare opposto nelle squadracce di delinquenti evasi dalle carceri della città e raggruppatisi in consorterie delinquenziali capaci di razziare, sequestrare, schiavizzare, stuprare, uccidere, diventando i padroni e i predoni di un luogo in cui le forze armate non entreranno se non al ristabilizzarsi di condizioni climatiche di normalità.
Carbone racconta la discesa umana negli inferi: la preoccupazione per quel cielo giallo che sputa sabbia senza soluzione di continuità, il fare comunità per affrontare insieme le difficoltà causate da quella calamità che isola e sconvolge la città, l’attesa vana degli aiuti, i sentimenti di scoramento e panico che cedono il posto a un desiderio di fuga disordinato e incontrollato, l’esigenza di creare squadre di mutuo soccorso per sopperire ai bisogni di prime necessità, come l’approvvigionamento di acqua e cibo, e quell’inesorabile scivolare verso una condizione di barbarie morale laddove il senso di giustizia cede il posto alle esigenze di sopravvivenza, mentre uno dei protagonisti, Saverio, che cerca di conservare un’etica e moralità che man man appaiono sempre più lontane e appartenenti a una condizione di normalità che non c’è più, si interroga nei memorabili dialoghi con padre Retez sul senso di giustizia a cavallo tra l’umano cristiano e l’umano troppo umano.
E da questo assedio, da questo senso di sconvolta normalità dove tutto comincia a essere il suo contrario e ogni regola viene stravolta, emerge il grande messaggio di questo romanzo: la relatività che si oppone all’assoluto, la costante ricerca del limite tra il bene e il male, l’estrema umanità, declinata tra miserie e nobiltà di animo, l’ineluttabilità di dover fare i conti con l’accidente, con le contingenze che hanno il potere di trasformare tutto nel suo opposto. Come a recitare: non dire mai di questa acqua non bevo!
E questo pendolo che fa tremare i polsi trova il suo culmine in uno degli ultimi e più lirici dialoghi del libro che è al tempo stesso sfogo e tensione dialettica tra due dei protagonisti: «“Non so se riuscirò a trovare qualcosa questa notte. Non so neanche se riuscirò ad aiutare mia figlia (…). Ma sono convinto soltanto di questo: che sono disposto a tutto pur di aiutare chi mi è vicino”. “Cosa vuol dire, a tutto?”. “A rubare. Forse anche a uccidere (…)”.
“(…) Sai che non ho mai fatto male a nessuno e che hos emrpe cercato di fare il bene, nei limiti del possibile”. “Chi ti da il diritto di stabilire cosa è il bene. Come fai a ergerti a giudice? Non esiste il bene e il male all’infuori di un certo tempo e di una certa condizione. La nostra stessa vita, Saverio, è fatta di bene e male. (…)Non puoi pensare di essere un uomo buono, quando tutto intorno a te sta crollando, quando sei toccato nei tuoi affetti, e hai perso la certezza della vita quotidiana”».
L’assedio allora non è più e solo quello della sabbia, ma assume una dimensione multiforme: è al tempo stesso assedio dell’anima, degli uomini contro i propri fratelli, dell’assoluto contro il relativo, dell’etica contro l’azione.
L’assedio è anche quella capacità di Carbone di mettere il lettore di fronte allo specchio della propria coscienza e costringerlo a mettersi nei panni di, a rispondere a domande scomode, a immedesimarsi, in un certo qual modo, attraverso una prosa asciutta, iper-descrittiva, tagliente come un bisturi, acuta, spietata nella sua ineluttabilità.
E, forse non sarebbe potuto essere altrimenti per un autore nato e cresciuto in una terra che dello spirito dell’inevitabilità ha fatto la propria lettera scarlatta.
Un romanzo che inizia piano, quasi un adagio e cresce con un impeto di storie, fatti, accadimenti capaci di inchiodarti con le spalle al muro. Un testo per riflettere e in cui riflettersi che, mai come oggi, appare di una modernità che sbigottisce.