Insidiato dai nazionalisti e dagli estremisti di sinistra
Mentre il totalitarismo, che sembrava essere svanito come un cattivo pensiero trent’anni fa, quando fu proclamata (per buone ma premature ragioni) la fine della storia, è tornato a occupare il centro della scena, la libertà in Occidente ha perso il suo appeal. Non è più «la cosa più importante, l’ultima cosa da salvare, l’estrema cittadella», come scriveva Geno Pampaloni recensendo 1984, appena tradotto, nel 1950. Eternamente sotto assedio, l’Occidente resiste da tremila anni, con alterne fortune, agli assalti del dispotismo asiatico, da cui ogni forma (anche moderna) di totalitarismo prende le mosse, e in cui affonda le sue radici.
Contemporaneamente, come nello scorso secolo e di nuovo oggi in forma più attenuata, l’Occidente deve difendersi dalle Weltanschauung totalitarie e dall’indifferenza per il lato horror delle cause illiberali che prosperano al suo interno come altrettanti rami storti della ragion politica: nel Novecento il comunismo e il nazifascismo, nel nuovo millennio il populismo, le «demokrature», Putin e Trump, il complottismo, il jihad, la cancel culture.
È una guerra culturale che cresce talvolta a guerra guerreggiata, come nella Spagna della guerra civile, quando il popolo spagnolo dovette guardarsi dal comunismo come dal fascismo, e come oggi in Ucraina, dove una potenza socialfascista mira ad annettersi una nazione tra gli applausi del fan club dei tiranni: i postfascisti e i postcomunisti occidentali (dove «post» ha sempre più l’aria d’una parola grossa).
Ai nemici del totalitarismo (gli anticomunisti e antifascisti che nel Novecento disponevano di partiti e giornali per dare battaglia ai jihadisti delle società tiranniche e ai loro Duci e Führer e Padri dei Popoli) Massimo Teodori dedica il suo ultimo libro, Antitotalitari d’Italia, edito da Rubbettino. Non è un racconto soltanto italiano: la libertà, nel primo e nel secondo dopoguerra, era un affare planetario, e chi si batteva per le società libere, o fuggiva dalle polizie politiche dei despoti al potere nelle nazioni politicamente più iellate, era parte d’un vasto fronte internazionale.
Da parte dei social-liberali, di Carlo Rosselli e di parte del Partito d’Azione, che avevano nel loro Dna la «rivoluzione liberale» di Piero Gobetti, più gramsciana e operaista che libertaria, c’era però un che d’ambiguità, che nemmeno l’esperienza della guerra civile spagnola – quando i comunisti massacrarono anarchici, trotskisti e socialisti variamente eretici – dissolse del tutto.
Nicola Chiaromonte, che al pari di Orwell aveva combattuto dalla parte dei repubblicani in Spagna, fu tra i testimoni diretti della furia comunista, speculare a quella franchista e nazifascista, contro ogni forma di libertà (Teodori dedica a un ritratto di Chiaromonte il lungo capitolo finale di Antiautoritari d’Italia).
Insieme a Ignazio Silone, ex funzionario del Pc italiano e dell’Internazionale comunista, Chiaromonte fondò e diresse Tempo presente, una rivista che faceva capo al Congress for Cultural Freedom, un’organizzazione anticomunista finanziata dalla Cia che dal 1950 era al centro di quella che Czesaw Miosz, poeta Premio Nobel nel 1980, definì una «cospirazione liberale assolutamente giustificata e necessaria».
In Italia si combatteva un’aperta e dichiarata battaglia liberale anche nelle pagine del settimanale Il Mondo diretto da Mario Pannunzio, al quale facevano capo autorevoli collaboratori, tra cui Gaetano Salvemini che in un articolo apparso sul Ponte, un’altra testata antitotalitaria, scrisse che come non riconosceva a se stesso alcuna «superiorità intellettuale e morale che mi dia sui miei simili diritto di vita e di morte, neppure ammetto che altri esercitino un simile diritto sopra di me in forza d’una superiorità che gli discenda dalle encicliche pontificie, o dalle encicliche moscovite, o da qualunque altra fonte».
Ci furono, negli anni, varie incarnazioni del partito radicale, all’inizio costola del partito liberale, poi strumento e bandiera pirata delle battaglie referendarie, infine «specchio delle mie brame» di Marco Pannella, come denunciarono molti radicali della vecchia guardia, tra i quali Teodori. Ma a dispetto di tutte le sue metamorfosi, il partito radicale fu sempre un partito antitotalitario, attento ai diritti, nemico dei tiranni asiatici e delle loro infiltrazioni in Occidente attraverso giornali prezzolati e «agenti d’influenza» (come si legge nelle spy stories e com’è facile capire sfogliando le gazzette filoputiniane, la Verità, il Fatto quotidiano).
S’allontanava l’incubo degli anni di piombo, il secolo delle ideologie era agli sgoccioli, ma il fallout post-ideologico del Sessantotto (il welfarismo, il qualunquismo, il populismo, il complottismo) continuava a depositarsi aprendo una nuova stagione d’illiberalismo, anticamera di nuovi pericoli totalitari. Ed eccoci a oggi, qui dove siamo, col fiato dei sovranisti e dei post fascisti sul collo.
In Germania il partito Alternative fur Deutchland echeggiava motivi filonazisti e così pure il Freiheitliche Partei (FPO) austriaco che aveva ben poco di liberale come pretendeva la sua sigla.
In Spagna il partito Vox raccoglieva a destra molti consensi e nei Paesi scandinavi i sovranisti e i nazionalisti si denominavano «partiti del progresso».
Massimo Teodori, Antitotalitari d’Italia, Rubbettino 2023, pp. 122, 15,00 euro