Nel mondo la gente si ricorda solo di quelli che contano. Il mondo è fatto dai protagonisti, dai primi e, inutile mentire, anche dai più ricchi. Se, in modo particolare, poi si pensa alle città, resta vivo il ricordo del centro, della sua vita brulicante, dei suoi monumenti e delle sue attività; la periferia, al contrario, viene spesso dimenticata e considerata marginale, quasi inutile.
Su questo tema si concentra il libro di Ettore Castagna, Tredici gol dalla bandierina (Rubbettino editore, pp. 260, € 13,60): un’opera che si potrebbe ascrivere, se non per la vicinanza geografica almeno per il contenuto e le intenzioni, in quel genere tutto sudamericano della cosiddetta letteratura calcistica, la cui scena è dominata da scrittori come Galeano, o Manuel Montalban, un genere che in Italia viene rappresentato da Gianni Brera prima e più recentemente da Federico Buffa. Il calcio viene considerato dagli appassionati come una forma moderna d’arte, che può portare un piacere per l’animo allo stesso livello della visione di un quadro di Picasso. Lo sport, inoltre, viene visto non solo come una metafora della vita, nel bene e nel male, con la sua imprevedibilità, ma anche come simbolo di un riscatto sociale. Basti pensare ai tantissimi calciatori nella storia del calcio che sono cresciuti in condizioni di estrema miseria, e che grazie al loro talento col pallone hanno raggiunto la fama e la ricchezza.
Palanca e Vito: due vite, un percorso
Protagonista dell’opera è un ragazzo, figlio di una umile famiglia di Catanzaro, di nome Vito Librandi. Siamo tra la fine degli gli anni Settanta e i primi degli Ottanta. Massimo Palanca è un calciatore di Serie A, con il ruolo di ala sinistra, che prima di militare nella Juventus, è stato nel Catanzaro, una squadra con cui ha raggiunto un’incredibile salvezza.
La sua fama è da attribuire ai gol che ha fatto direttamente da calcio d’angolo, tredici per la precisione. Ognuno di questi gol, frutto di un gesto raro e poetico, permette al protagonista di ricordare molti dei suoi momenti di adolescente, cresciuto nella montagna russa che per lui era rappresentata dal Liceo classico, alla sua situazione familiare: infatti egli è un figlio del popolo, cresciuto in una situazione modesta da una madre molto cattolica, in una scuola di borghesi. «Papà, come faccio a dirti che il figlio dell’usciere Librandi al Liceo Classico di Catanzharu vale assai meno dell’avvocato Cerasimo. Non lo sai? Non te lo immagini? Quello studio o non studia la famiglia è buona. La famiglia è promossa». Un’epoca in cui il liceo era una scuola per ricchi, e a chi non faceva parte di quella élite veniva fatto pesare.
Palanca era un umile giocatore della provincia ai tempi, con quei baffi che ricordavano quasi un rivoluzionario. Un particolare da non sottovalutare perché per questo è visto anche come il simbolo del riscatto di un’intera popolazione. Intanto Vito Librandi negli anni del liceo è preso fin da subito dalle lotte comuniste, dai collettivi studenteschi, ma anche dall’amore che prova per una sua coetanea, con i suoi stessi ideali, di nome Luisa.
Quest’ultima, femminista convinta, cambierà la sua adolescenza. Lui, infatti, entra nel partito dopo essersi invaghito di lei, la quale gli dichiarerà: «pure questo ti volevo dire, che sei diverso. Mi sento accolta come donna. Tutti si avvicinano per quell’altro motivo, tu no. Tu sei dolce, hai rispetto, voglio la tua amicizia». Anche quando poteva esserci una prima volta, non ci sarà mai.
In questi anni, mentre Vito partecipa alla vita politica, attraverso lotte sulla scia di quelle più a stampo terroristico, Catanzaro vive nell’anonimato, fatta eccezione per il solo nome di Palanca. Come, infatti, viene dichiarato all’inizio della storia dal giovane: «Vivevo a Catanzharu dove non avvenne mai nulla. Così dicevano i miei amici e tutti i miei parenti. Cca ’on c’è nenta. A Cosenza non ci fu mai nenta, a Riggiu pu pu pu pu pu pu pu…
E anche dopo non avvenne mai nulla. Così è destinato. Pure ora a Catanzharu non succede, non succederà mai nulla. Nulla, a parte Massimeddu».
Narrazione e lingua
A favore dell’originalità dell’opera vi è certamente la modalità in cui si smuove il racconto: infatti, in molti punti del testo, il protagonista pare confidarsi a Palanca, affidando le sue riflessioni a un dialogo con una foto del suo beniamino. A lui racconta la sua esistenza, sebbene lo abbia solamente visto da lontano e non lo abbia mai conosciuto dal vivo. Si tratta di una narrazione che talvolta assume toni introspettivi ma al contempo dialogici.
Inoltre, per esprimere un maggior realismo, e omaggiando il luogo in cui si snodano le vicende, è dominante in tutta l’opera un italiano pulito inframmezzato ad espressioni e modi di dire tipici del dialetto calabrese.
Chi parte e chi resta
Castagna ritrae anche un perfetto spaccato della situazione politica di quel tempo, e dell’evoluzione delle lotte studentesche in particolare. Assistiamo quindi al ritorno alle proprie origini di molti compagni di Vito. Prima si mostrano da veri rivoluzionari, partecipando con lui alle lotte, ma solo alla fine mostrano la loro realtà e i loro privilegi di borghesi, trasferendosi per la maggior parte al Nord, chi per fare Medicina, chi Giurisprudenza, e così via; Vito invece, senza le stesse possibilità economiche, rimane a fare un lavoro anonimo e privo di prospettive a Catanzaro, mettendo in crisi tutto quanto quello che ha fatto durante la sua giovane vita.
Si tratta quindi di un libro utile a pensare e a scoprire la sfera dell’esistenza, fin dalle proprie origini e, perché no, cercando conforto nel proprio mito dell’adolescenza.
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