Da Corriere Economia del 4 luglio
C’è chi non vede l’ora di uscirne, come il 51% dei britannici, che lo scorso 23 giugno hanno votato per l’addio all’Unione europea. E c’è chi la considera spendacciona, frazionata o focolaio di crisi finanziarie, come diversi politici e finanzieri. L’Unione europea, di questi giorni, non gode di ottima e universale fama. Ma, opinioni a parte, resta il fatto che noi europei, pur rappresentando solo il 7% della popolazione mondiale, produciamo il 25% del Prodotto interno lordo totale e beneficiamo del 50% del welfare planetario. Senza contare il periodo di 70 (e passa) anni di pace che il continente sta sostanzialmente vivendo dalla fine della seconda guerra mondiale. Di fronte alle crescenti pulsioni per smontare l’Unione, sarebbe invece cruciale rafforzarla per frenare xenofobia, nazionalismi e rilanciare la crescita: da questo assunto parte il nuovo libro di Roberto Sommella, «Euxit, uscita di sicurezza per l’Europa», edito da Rubbettino. Sommella – direttore delle relazioni esterne dell’Antitrust e fondatore dell’associazione La Nuova Europa – cerca di smontare alcuni luoghi comuni su argomenti molto cari al popolo degli anti-Ue. Tra questi c’è l’immigrazione. Ecco, a proposito, alcuni numeri: in Italia nel 2014 i contributi inps versati da lavoratori extracomunitari valevano circa 8 miliardi a fronte di prestazioni pensionistiche per circa 642 milioni e non pensionistiche (come cassa integrazione, disoccupazione, malattia e assegni nucleo familiare) per 2,4 miliardi, con un saldo positivo di diversi miliardi di euro. Anche a livello fiscale l’apporto finanziario degli immigrati regolari e integrati nel tessuto sociale e produttivo è positivo. I contribuenti stranieri hanno dichiarato nel 2014 redditi per 45,6 miliardi, versando 6,8 miliardi di Irpef.
Ma l’autore non si ferma all’immigrazione e affronta anche altre questioni, più prettamente economiche, spesso sbandierate per questo o quel motivo dai critici dell’integrazione del Vecchio Continente. Ci sono per esempio le strategie della Banca centrale europea: il libro vuole smontare le tesi – molto nordiche – di chi vede nell’Italia il principale beneficiario del maxi allentamento monetario lanciato da Mario Draghi. Da inizio 2015 (con il varo del Quantitative Easing) il Pil e l’export tedesco – già in forma – hanno continuato a marciare di buona lena, grazie anche all’euro in flessione proprio per le mosse della Bce (con il vecchio marco, invece, le cose avrebbero potuto essere ben diverse). Anche Berlino ha quindi raccolto i suoi frutti.
E poi, si potrebbe aggiungere a posteriori, ci sono le prime evidenze post referendum britannico sulla Brexit. Quali? Basta vedere il caso delle due Borse di Londra. O, meglio, di due indici del listino della capitale britannica: l’Ftse 100, dove dominano le grandi imprese multinazionali con sede a Londra e ricavi soprattutto all’estero, è già risalito ai livelli pre-referendum; mentre ha decisamente sofferto di più l’Ftse 250, dove invece hanno un forte peso aziende meno grandi e più ancorate al mercato britannico.
Insomma, almeno da un punto di vista borsistico, l’uscita della regina Elisabetta dall’Unione europea – sbandierata dai promotori come un vantaggio per la Gran Bretagna e un affare per le sue imprese più «british» – sembra piuttosto essere un’occasione per chi è già più forte e non è poi così tanto, appunto, «british».
di Giovanni Stringa
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