Da Il Mattino del 9 maggio
Ormai, ci sono due Europe. Una è quella delle buone intenzioni, che si rincorrono di manifestazione in manifestazione. La Ue delle parole e quella della realtà L’altra, è l’Europa della – dura – realtà. Da anni si sono separate, scisse. E appare sempre più improbabile che possano riunificarsi.
Un tempo, tanto tempo fa, all’epoca dello statu nascenti, l’idea di Europa, la sua visione marciò a lungo di intesa – in sinergia – con i problemi che, di volta in volta, affrontava, mediava, superava. Si insiste spesso sul fatto che il miracolo europeo – la creazione di un processo unitario sulle ceneri di due guerre civili e sessanta milioni di morti – sia stato il frutto di una geniale e generosa intuizione. Ma quel sogno si sarebbe infranto, come tanti altri prima, in un baleno se non si fosse nutrito di un accorto – accortissimo – pragmatismo e gradualismo.
È questo che nell’ultima, convulsa fase è venuto a mancare. La critica più diffusa all’impasse in cui Bruxelles si è cacciata e impantanata è che dipenderebbe dall’assenza di slancio nel portare avanti, con convinzione, i valori comuni. Quei valori senza i quali l’Europa non avrebbe mai visto la luce. Ma i valori, per fare da traino, hanno bisogno di incardinarsi saldamente nella vita dei popoli che sono chiamati a incarnarli, rispettarli, difenderli. E oggi, questo è palesemente impossibile. Per una ragione tanto semplice quanto drammatica: tra i valori e gli elettori si è spezzata la cinghia di trasmissione.
Mano a mano che la costruzione europea diventava più impegnativa e si ampliava la sua sfera – e macchina – di intervento, appariva chiaro che mancava, alle basi del nuovo edificio, un circuito di legittimazione. Per dirla nel modo più brutale, all’Europa sono mancati i partiti. Contrariamente alle aspettative – e ambizioni – della vigilia, i partiti si sono dimostrati – ancor più dei rispettivi governi – vincolati alla dimensione nazionale. Decennio dopo decennio, i cosiddetti partiti europei sono apparsi sempre più distaccati dai cittadini che – sempre meno numerosi e più distratti – li votavano per rappresentarli. Le carriere parlamentari di Strasburgo – nella grande maggioranza dei casi – si sono rivelate una sorta di pre-pensionamento di lusso. Contribuendo non poco a alimentare quell’immagine di casta e privilegio che ha logorato la reputazione dei partiti tradizionali. Con un – devastante – paradosso.
Il fallimento nel riposizionare il proprio ruolo a livello europeo ha innescato un cortocircuito distruttivo sulla dimensione locale. Gli elettorati – di destra e di sinistra – si sono giustamente convinti che i partiti non influivano sulle decisioni più importanti. Non solo contavano poco – o niente – sui tavoli intergovernativi della nuova elite tecnocratica. Ma contavano sempre di meno anche nei parlamenti nazionali, dove le politiche pubbliche di maggiore importo e impatto seguivano binari- legislativi e implementativi – già tracciati a Bruxelles. Il risultato è stato un doppio prezzo politico pagato dai partiti sull’altare dell’utopia europea. Una sorta di autodafè, come recita il titolo del libro-testamento di Peter Mair pubblicato in questi giorni da Rubbettino: «Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti». La tesi del politologo irlandese è che il vuoto in cui oggi si dibattono i partiti, nella morsa dell’antipolitica, è una diretta conseguenza del vuoto in cui sono stati risucchiati a Strasburgo.
Con l’aggravante che non si sa come uscirne. Nei singoli contesti nazionali, assistiamo alla progressiva sostituzione del governo incentrato sui partiti con un nuovo tipo di regime, che ruota intorno al capo di governo – premier o presidente che sia. Questa «democrazia del leader» ha molti limiti, e il suo tallone d’Achille nella sovraesposizione mediatica di chi è costretto a rincorrere il consenso con promesse difficilmente mantenibili. Tuttavia, rappresenta il baluardo di ciò che resta della mobilitazione ed identificazione delle masse con i vertici della cosa pubblica. Ma è una formula che non si può esportare a livello sovranazionale. Un presidente europeo, autorevole e legittimato, sarebbe – forse – l’unica soluzione alla sindrome di impotenza – e inadempienza – in cui siamo precipitati. Ma coi partiti che a malapena riescono a rassegnarsi a fare spazio ai leader in casa propria, appare davvero improbabile che spunti un uomo – o una donna – capace di diventare il simbolo di un’Europa che si rimette in cammino.
di Mauro Calise
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