Da Domenica (Il Sole 24 Ore) del 27 marzo
Credo che abbia ragione Alessandro Campi quando afferma – nella introduzione alla raccolta dei suoi saggi su Raymond Aron, La politica come passione e come scienza (Rubbettino) – che il pensatore francese «non è mai stato un dottrinario o ideologo del liberalismo, impegnato a tessere le lodi del mercato e dell’individualismo». Basti pensare al fatto che Aron, benché fosse un fermo sostenitore della società industriale liberaldemocratica, non esitava ad affermare che tale società è contraddistinta da due caratteristiche fra loro contraddittorie: essa proclama l’eguaglianza dei cittadini (per quanto riguarda i loro diritti civili e politici), ma produce una grave ineguaglianza dei loro redditi e delle loro maniere di vivere. E tale ineguaglianza è largamente determinata non già dai meriti e dai demeriti individuali, bensì dai diversi punti di partenza sociali. A ciò bisogna aggiungere che anche nelle società industriali più avanzate una notevole aliquota della popolazione è afflitta dal bisogno e dalla povertà.
Il liberalismo di Aron, insomma, è assai diverso da quello di Hayek (ed è merito di Campi aver colto lucidamente questo punto e averlo discusso adeguatamente). Infatti il pensatore francese ha rivolto una critica tanto sottile quanto severa all’idea di libertà formulata dal pensatore austriaco. A quest’ultimo Aron rimprovera, in primo luogo, di aver parlato della libertà e non delle libertà, secondo un procedimento riduttivo che finisce per perdere molte determinazioni della realtà, e mette capo, sostanzialmente, a un’astrazione. Come è noto, la libertà consiste per Hayek nell’assenza di coercizione. («La coercizione ha luogo – egli dice – quando le azioni di un uomo dipendono necessariamente dalla volontà di un altro uomo, non per uno scopo dell’agente ma per lo scopo dell’altro»). Aron però obietta che in questo modo vengono tralasciate altre idee di libertà, che hanno avuto una grande importanza nella nostra epoca (l’indipendenza nazionale, la partecipazione dei cittadini all’ordine politico, eccetera). Ma, anche a voler accettare la concezione hayekiana della libertà come assenza di costrizione, essa non basta, dice Aron, a precisare i criteri che contraddistinguono una società libera. Infatti, oltre alla libertà come non-costrizione, ci sono anche altre libertà, senza le quali essa rischia di rimanere vuota. Questa è un punto molto delicato della concezione aroniana della libertà, poiché il pensatore francese ammette (e si tratta di una ammissione lontanissima da Hayek) che «la concezione liberale della libertà ha subìto il peso della critica socialista, e quest’ultima ha di fatto contribuito a smascherare ciò che l’ideologia liberale tendeva a velare». Cosa importa infatti, dice il pensatore francese, che tutti i cittadini dispongano della libertà di mandare i propri figli nella scuola x o nell’università y, se questo diritto si rivela nella realtà puramente fittizio per i meno abbienti, dal momento che non vi sono borse di studio che possano ampliare il reclutamento degli aspiranti alle scuole più prestigiose e costose?
Aron “socialista” dunque? Certamente no: glielo impediva il suo modo di pensare ispirato a un robusto realismo sociologico-politico (al quale Campi dedica considerazioni efficaci). Il pensatore francese ha sottolineato sempre che la vita in società (e soprattutto in una società industriale) implica il coordinamento delle attività individuali. Tale coordinamento, a sua volta, esige delle regole, impone dei divieti, e necessita inevitabilmente di una gerarchia di autorità richiesta da qualunque impresa collettiva. Dice Aron a questo proposito: «Che l’obiettivo sia la caccia alla selvaggina, l’assalto a un fortino nemico o la costruzione di un ponte, gli atti di ciascuno – cacciatore, o soldato, o muratore – sono e devono essere parte di un insieme che nella sua interezza esiste soltanto nella mente di uno o più capi.
Cacciatori, soldati e muratori divengono così inevitabilmente gli strumenti dei loro capi, sottoposti senz’altro alla costrizione, a meno che non si voglia utilizzare una diversa definizione della costrizione». Ciò significa che la società umana (e massimamente quella industriale) è complessa e stratificata: di qui i ceti sociali e le loro inevitabili differenze, di qui le élites (imprenditoriali, sindacali, politiche eccetera), di qui la diversa collocazione di chi sta in alto e di chi sta in basso nella scala sociale. Tutto questo è inevitabile (e perciò non si può aspirare all’eguaglianza assoluta). Ma un liberale degno di questo nome deve battersi perché i meriti e i talenti siano riconosciuti, e perché a tutti sia permesso di raggiungere un tenore di vita adeguato. Questo il credo di Aron (presentato da molti, in passato, come un reazionario incallito).
di Giuseppe Badeschi
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