Dal Corriere della Sera del 19 marzo
Una delle più straordinarie trasformazioni antropologiche avvenute nelle società democratiche è senza dubbio quella che riguarda il loro modo di considerare la guerra. Giudicata a lungo un elemento originario, e perciò ineliminabile, della natura umana, la guerra è oggi vista come una pratica obsoleta, almeno limitatamente al mondo occidentale. Questo per alcune ragioni che sono esaminate in un’interessantissima sezione su «Guerra e democrazia» della «Rivista di politica», diretta da Alessandro Campi (editore Rubbettino).
Anzitutto vi si chiarisce che, da un punto di vista fattuale, la tesi della fine o del declino della guerra può essere accolta soltanto in parte. È vero che dopo il 1945 la capacità distruttiva delle armi nucleari ha mutato il calcolo costi-benefici di un conflitto armato, contribuendo così a garantire all’Europa una lunga pace.
È vero anche che la rivoluzione legata alla caduta del Muro e la transizione al sistema post-bipolare sono avvenute in modo pacifico. Tuttavia, osserva nel suo saggio Valter Coralluzzo, ad essere diventata obsoleta non è tanto la guerra in sé, quanto le cosiddette major wars, i conflitti tra grandi potenze. A questo proposito è stato calcolato che dal 1989 al 2011 si sono verificati ben 137 conflitti armati, dei quali soltanto nove classificabili come conflitti tra Stati. Dalla caduta del Muro in qua, insomma, è venuta meno non tanto la guerra, quanto la sua connessione con lo Stato: ormai prevalgono nettamente i conflitti infra-statali, che vedono singoli gruppi – definiti sulla base dell’identità etnica, religiosa o di clan – combattere contro lo Stato di cuí fanno parte. Una variante di questo nuovo tipo di conflitto è la guerra «asimmetrica» in atto tra le potenze occidentali e quella particolare organizzazione non statale che è il terrorismo globale.
Se dunque la guerra nel mondo contemporaneo non è affatto scomparsa, ma ha solo mutato forma, è del tutto vero invece che essa è scomparsa dal novero di ciò che è culturalmente accettato, almeno negli Stati democratici. Perché fosse possibile impegnarsi in un conflitto armato è sempre stato indispensabile che una società si riconoscesse in alcuni ideali e valori tali da giustificare la morte dei propri soldati. Ma questo è appunto ciò che appare sempre più problematico, almeno in Occidente: da una parte lo choc di due guerre mondiali, dall’altra lo sviluppo di una cultura individualistica fondata sul benessere hanno fatto sì che non esistano più delle «buone » ragioni per rischiare la vita in guerra. O meglio, perché ci si possa impegnare in un conflitto occorre che questo venga giustificato alla luce di principi di tipo altruistico: come scrive nel suo contributo sulla «Rivista di politica» Cinzia Rita Gaza, oggi «non si va in guerra per vincere, sconfiggere, conquistare, ma per salvaguardare, pacificare, ricostruire».
L’altra condizione sempre più indispensabile perché uno Stato democratico si impegni militarmentè riguarda la possibilità di una guerra casualty free, nella quale cioè si dovrebbe poter limitare il numero dei nemici uccisi e addirittura evitare che muoia qualche nostro soldato nonché i civili dell’altra parte. È per tentare di realizzare la guerra «a zero morti» tra i propri soldati che si mettono in atto operazioni militari interamente condotte dal cielo, come in Serbia o in Libia; oppure che si introducono regole di ingaggio che antepongono la sicurezza del soldato all’efficienza militare; o, ancora, che si cerca il più possibile di trasferire sugli alleati locali i rischi del combattimento sul terreno.
Nella realtà, le bare dei soldati caduti riportate in patria, da un lato, le immagini televisive che mostrano i civili uccisi per errore, dall’altro, si incaricano di mostrare come la guerra senza vittime sia solo un’illusione. Ma poche cose come questa illusione testimoniano quanto sia profonda la trasformazione che caratterizza l’atteggiamento delle società democratiche rispetto alla guerra e la dissonanza cognitiva che questa trasformazione implica: è vero infatti che la guerra è diventata per noi un tabù, ma è vero anche che essa continua a far parte degli scenari possibili del mondo contemporaneo.
Di Giovanni Belardelli
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