La strage di Farneta

di Fabio Arduino, del 25 Maggio 2015

Da Toscana Oggi – ed. Vita Apuana del 24 maggio

Un torrente di sangue lega Massa a Lucca, trattasi del fatto cristianamente forse più significativo tra quelli della resistenza italiana all’occupazione tedesca: dodici monaci della Certosa di Farneta (LU) che vengono fucilati dai tedeschi nel settembre del 1944, perché nascondono nel monastero e nelle sue dipendenze un centinaio di perseguitati e ricercati dai nazifascisti, compresi partigiani ed ebrei.
Un recente libro di Luigi Accattoli riesuma dall’oblio la loro vicenda. Due di loro, Martino Binz (svizzero d’origine e priore della comunità) e Bernardo Montes de Oca (già vescovo di Valencia in Venezuela e novizio certosino), trovarono la morte il 7 settembre nel territorio del comune di Camaiore. Gli altri saranno fucilati invece il 10 settembre a Massa, alcuni sulla riva sinistra del torrente Frigido. Il vescovo Bernardo era entrato nella Certosa dopo aver rinunciato al Vescovado di Valencia. Raffaele Cantero è spagnolo, Adriano Clerc è svizzero e Adriano Compagnon è francese. Il vero bersaglio dei tedeschi era di fatto il «procuratore», cioè l’economo della Certosa, Gabriele Maria Costa, l’unico a godere – quale responsabile dei lavori agricoli e artigianali del monastero – di una relativa libertà di movimento, nonché unico in contatto con gli ambienti partigiani: a lui spettò organizzare l’ospitalità decisa dal priore, un centinaio di perseguitati e ricercati dai nazifascisti, compresi partigiani ed ebrei. Il padre Costa aveva una vasta esperienza culturale: 46 anni, ex impiegato di banca, entrato alla Certosa di Vedana a 24 anni, era passato per la Grande Certosa francese, per quelle di Firenze e di Trisulti. Durante il periodo trascorso fiorentino (1929-1933) ebbe a conoscere Giorgio La Pira, di cui fu confessore e che nel 1942 scrisse la prefazione della biografia di san Bruno, fondatore dei certosini, pubblicata dal padre Costa con lo pseudonimo di A. Mariani. In quella prefazione La Pira sintetizzava così lo spirito con cui lui e il padre Costa avevano riflettuto sulla tradizione certosina e la storia d’Europa nei primi anni della guerra: «Solo una vasta ripresa di valori contemplativi, accompagnata da una vasta donazione di valori temporali, potrà ridare volto cristiano e pace cristiana a questa desolata e lagrimante e già cristiana Europa». Il numero dei rifugiati in Certosa variava di continuo, ma tendeva sempre ad avvicinarsi al centinaio. Giovani in fuga dalla leva, meridionali restati isolati dall’ava fronte, antifascisti d’ogni tendenza, ebrei e partigiani braccati sono ospitati nella foresteria e d’estate nella grande loggia sopra il chiostro, ma anche in ambienti più riservati, come le stanzette del «definitorio» e qualche cella monastica senza occupanti. Alcuni gruppi vennero messi al sicuro nei casolari contadini dipendenti dalla Certosa: una colonia di ebrei livornesi per esempio venne ospitata nelle casette di Formentale, ma altri ebrei erano nella Certosa, travestiti da monaci. Il padre Costa «ogni tanto portava un ebreo, qualche volta due, sempre camuffati, a visitare le propri mogli che erano rifugiate dalle suore zitine e, come testimonia una suora, faceva un certo effetto vedere in parlatorio dei monaci abbracciare e baciare delle monache». Nella notte tra il 1° e il 2 settembre 1944 le SS fecero irruzione nella Certosa ed i monaci vennero sorpresi nel coro della chiesa, mentre stavano per cantare mattutino. Un sergente con i calzoni corti della divisa estiva, mitra a tracolla e fanalino sul petto, intimò «Mani in alto! Chi parla, grida, o fa segni, è fucilato immediatamente!». Avevano piazzato una mitragliatrice pesante nel cortile d’onore, dove vennero ammassati, faccia al muro, i rifugiati, mentre i monaci venivano raggruppati in portineria. I certosini furono costretti a vestirsi in borghese ed a più riprese divisi e suddivisi tra i «validi al lavoro», da deportare in Germania e gli invalidi da eliminare. Gli invalidi vengono tenuti prigionieri prima in un frantoio di Nocchie poi al Forte Malaspina di Massa. I primi due, già citati, vennero uccisi durante un trasferimento a piedi, poiché incapaci di camminare. Gli altri invece nel mezzo del grande massacro di domenica 10 settembre, conosciuta come «strage del torrente Frigido»: due o tre per volta, una camionetta li prelevava dal Forte e tornava scarica. I certosini presenti a Farneta al momento dell’irruzione tedesca erano ventotto. I sedici monaci validi al lavoro vennero avviati al campo di concentramento di Fossoli, in vista della deportazione in Germania. Ma il vescovo di Carpi ottenette dal comando tedesco che partissero per la Germania solo i dieci fratelli laici, pratici del lavoro manuale, che lavoreranno in una fabbrica di Berlino e rientreranno tutti in Italia dopo la guerra. Gli altri, sacerdoti o studenti, vennero affidati in custodia al vescovo. Uno dei sopravvissuti, Astorre Baglioni, che sarà tra coloro che faranno rivivere la Certosa dopo la guerra, racconterà il clima di meditazione biblica e di affidamento a Dio in cui i monaci destinati alla morte o alla deportazione vissero i nove giorni di prigionia. Il più consapevole e mite tra i monaci si rivelò il maestro dei novizi Pio Egger, di lingua tedesca, che fece da interprete con i carcerieri. Racconterà un prigioniero che riuscirà a fuggire: «Fu a tutti di conforto con le sue parole, o per meglio dire col suo cuore, con l’ardore della sua fede e persino col suo canto. Ero pronto a morire anch’io». Il particolare valore dei fatti della Farneta in ordine alla riscoperta cristiana dell’ebra fu così attestato da Giorgio La Pira in un telegramma per il trentesimo anniversario della strage:«Sacerdoti et religiosi specie certosini testimoniarono come Maccabei con loro sangue et con loro Resistenza et a servizio degli uomini l’amore et la fedeltà a Dio et al popolo d’Abramo di Isacco et Giacobbe. Mentre tutto crollava essi videro sperando contro ogni speranza la genesi di una città nuova attorno alla fontana antica»

di Fabio Arduino

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