Da La Città (Teramo) del 31 maggio
Il titolo di un libro è sempre una sorta di manico attraverso cui quel libro si può afferrare o afferrare meglio. In questo caso la prima impressione che nasce dalla lettura de “Il visionario alato e la donna proibita”(Rubettino, pp. 355, 16 euro. traduzione di Elio Miracco ) di Visar Zhiti è quella che deriva dall’aver attraversato le oltre trecento pagine di un libro denso e affascinante. Un libro che poco a poco ti trascina nel gorgo delle «molte cose che mutano nella loro terribile immutabilità» (per usare le stesse parole di Zhiti). E che attraverso l’imprinting dell’immagine del «visionario alato» e della «donna proibita» hai l’impressione di afferrare meglio. O comunque hai l’impressione che non scivoli di mano. La sua lettura ha bisogno di un tempo allargato che diventa a mano a mano sempre più stretto e coinvolgente, mentre affiora e si consolida l’immagine forte e disseminata nel racconto della coppia formata da Felix, il giovane fotografo alle prime armi, ed Ema, la giovane liceale vittima del regime comunista albanese. Un romanzo dal profondo respiro narrativo che si organizza e si stratifica dentro la sua struttura per così dire “aperta” o comunque assai allargata, non strettamente vincolata dal suo format. In cui ognuno dei sei capitoli è un racconto a sé, una sorta di preludio – ripetuto, ciclico e insieme rigenerato – di una tragedia che continua a ripetersi, quella dell’Albania. Si potrebbe dire che quella di Zhiti è, a suo mondo, un’opera-mondo di una complessità notevole e in cui la narrazione potrebbe allungarsi all’infinito. Dove la digressione, lo scarto, l’andatura sinusoidale sembrano scalzare la centralità lacerante, il nocciolo duro e infusibile di ciò che narra e si narra.
Ma al centro c’è sempre – visibile, invisibile, taciuto e potentemente sottinteso e sottilmente alluso – un qualcosa di perforante e insistito, come una spina dolorosa. Una ferita mai chiusa, che continua a sanguinare, che continuerà a sanguinare: ed è la fonte segreta e inesauribile, anche se talora con andatura carsica, che ha portato al racconto. È quel patto che Zhíti ha stabilito con la propria biografia e con la propria figura di testimone in prima persona che ha al centro una condanna a dieci anni di lavori forzati nelle miniere per i suoi versi considerati antiregime, con la sua voce che porta all’insopprimibile necessità del racconto, del suo racconto. Un racconto che, proprio per la struttura, si rifrange come la luce riflessa sul diamante. Si moltiplica e si dissemina e si frantuma. Cioè moltiplica, dissemina e frantuma le sue storie ricorrenti in immagini, ricordi di orrori antichi e recenti, ossessioni, immagini di città nel flusso di un caleidoscopio veloce, dal ritmo quasi ansimante, talora quasi schizoide. E senza una strada precisa, ma con una riga che la traccia e la cancella di continuo. Una riga o meglio una traccia che zigzagando può mettere insieme osservazioni, citazioni, elenchi commenti, ricordi, sogni, racconti di vita o appunti per storie da scrivere e magari ancora non scritte. Quello che conta è il montaggio, l’accostamento, la mescolanza, l’alternanza, gli accorgimento dell caso, il su e giù, l’andare in tutte le direzione, la documentazione insieme selettiva e senza censura, il ricordo dell’orrore e degli orrori che genere l’angoscia, ansia, tormenti.
Per scrivere ripercorrere o inventare l’allucinato resoconto, il reportage dell’anima dei un uomo travolto dalla storia e di una donna come molte, come tante vittima della dittatura, la forma scelta è classica, è quella del viaggio simbolico, rappresentativo.
Scavando nelle proprie piaghe con l’acume conoscitivo che è anche un sguardo paranoico Felix compone un ritratto della patria e dei suoi figli feriti, smarriti nelle città europee, attratti dalle insegne a neon e dalla falsa promessa di un irragiungibile libertà. Un ritratto che è insieme racconto in prima persona della propria esperienza e anche libro identitario, come uno specchio anche deformato. La figura dello specchio è ricorrente nelle paranoiche fantasie di Felix: uno specchio dentro cui leggere, rappresentare, trovare formati il pensiero e il vissuto, la sofferenza e la rabbia, le passioni e le mortificazioni, le tante maschere di tutti coloro che hanno subito la Storia in un epoca complessa e tragica della storia albanese. E il viaggio è come la prova a cui sono sottoposti nelle storie popolari di eroi o i protagonisti. Si potrebbe dire l’iniziazione a cui Zhiti sottopone il suo Felix attraverso un itinerario borderline. Un po’ sognato, un po’ reale, e in cui la realtà dura e petrosa ha angoli e piani di vera e propria allucinazione.
E l’allucinazione ha la forza espressiva e dirompente di una iperrealtà squillante e invasiva, in un’Europa alla fine del secolo scorso, alla ricerca di una possibilità per rendere giustizia alle infamie del regime comunista e delle violenze perpetrate nel sistema carcerario albanese. Un viaggio che è scandito da tre propositi. Il primo è quello di visitare i luoghi sognati: Roma, Venezia, Bologna. Il secondo punta a ritrovare lo spirito gemello di lei, liceale messa in carcere e poi uccisa perché portava una croce in petto e pregava contravvenendo all’ateismo di Stato imposto da Hoxha. Il terzo è quello di consegnare un dossier sulla sua tragica morte.
Un viaggio che è un po’ come un volo sciamanico di abbagli, conoscenze, agnizioni e misteri dentro città, paesaggi, atmosfere. Il tutto visto come dall’alto, ma attraverso un vetro invisibile contro cui Felix va a sbattere, in una delle scene più nette e simboliche dell’intero romanzo. Dall’alto di una visione in cui il tempo della memoria e quello del presente convergono spesso e si sovrappongono, con la visione che acceca l’occhio e l’occhio che crea la visione. E tutto ciò è assai vivo, felicemente rappresentato, come nelle tante scene sull’orrore di un regime, che arriva a vietare anche le poesie dedicate alla luna e scritte in carcere, oppure l’orrore con le sue tecniche, i suoi soprusi, le violenze, le ottusità, le follie comportamentali e cognitive.
Il viaggio è a suo modo un viaggio di conoscenza, quel tipo di conoscenza che viene dalla memoria lacerata di ciò che si è vissuto e che affiora per lampi, associazioni, veri e propri paranoici ripescaggi che diventano schegge di sapere e di saperi, dolorose acquisizioni a posteriori di ciò che si è vissuto. Acquisizione di ciò che Felix ha vissuto, e dietro di lui lo scrittore testimone dell’orrore e perciò stesso deputato attraverso la scrittura a dirlo, a raccontare quello che altrimenti resterebbe non detto, indicibile. Ha vissuto e vuole testimoniare nel suo correre per l’Europa, ricostruendo nel sogno o nell’incubo quello che forse ha davvero percorso o forse no, proprio perché «non c’è treno che porti alla realtà quando la realtà è sogno». Per conoscerla, ma soprattutto perché mosso dalla necessità che l’Europa conosca e riconosca la barbarie da cui lui stesso proviene e le violenze profondamente incise nelle sue stimmate di pellegrino, di esiliato. Con il tormento,il disagio, l’ansia, la disperazione, la fuga, l’inadeguatezza, l’insicurezza, l’intuizione, la tolleranza, la critica, l’incertezza, il senso che tutto passa se non lo afferri con la parola. Ed è per questo che nel suo viaggio porta con sé il dossier, quasi una forma di riscatto per la vita perduta di Ema, chiusa in una bara dopo i soprusi subiti. Quel dossier che, da oggetto composto da fogli e cartelle, diventa una parte interiore e spirituale di Felix.
“Il visionario alato e la donna proibita” non è un romanzo facile, di facile intrattenimento, di quelli che spettacolarizzano il dolore, l’orrore a buon profitto. E lo fanno con facile scandalo, la facile indignazione, lo sdegno semplificato di chi appunto vuol trarre profitto dallo scandalo, dallo sdegno, dall’indignazione di fronte al dolore e all’orrore del mondo. È al contrario un romanzo duro, drammatico, doloroso, complesso, claustrofobico e insieme visionario, dove la letteratura è uno strumento di testimonianza, di conoscenza e di verità.
di Renato Minore
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