Da Avvenire del 20 maggio
Nell’ autunno del 2009 Abby Johnson ha ventinove anni e svolge un lavoro che le piace e le procura molta soddisfazione: ricopre il ruolo di direttrice in una clinica texana della nota organizzazione “Planned Parenthood”, nella quale si praticano aborti. L’appagamento deriva in buona misura dalla convinzione di operare davvero per il bene e l’emancipazione delle donne: ella ritiene che l’interruzione volontaria della gravidanza rappresenti uno strumento di cui ogni donna deve potersi giovare, soprattutto una volta che altre opzioni come la contraccezione hanno fallito nel loro scopo. Basteranno dieci minuti a cambiare il corso della vita di Abby. Un giorno viene chiamata in sala operatoria: la mancanza di personale la obbliga a prendere attivamente parte all’effettuazione di un aborto. Sottratta ai suoi compiti dirigenziali e amministrativi, seppur controvoglia, va ad affiancare il medico: manovrerà uno strumento necessario a condurre a buon fine l’operazione.
In quel momento nella sua mente si fa strada, sempre più forte, la certezza che, in realtà, lei non vuole quell’aborto: la nitida immagine del bambino ospitato nel seno della madre le ricorda quella di sua figlia Grace alla dodicesima settimana di gravidanza: «Improvvisamente però un’ondata di ansia prese il posto del piacevole ricordo di Grace. Cosa sto vedendo? Il mio stomaco ebbe una stretta. Non voglio guardare quello che sta accadendo». Intanto, vengono messe in atto tutte le manovre necessarie a praticare l’aborto, fino a che Abby non vede scomparire il bambino, risucchiato da una cannula.
Sono passati solo dieci, forse quindici, minuti da quando è entrata in sala operatoria, ma sono stati sufficienti a mutare radicalmente la sua esistenza: da quel momento Abby Johnson diventerà una convinta militante del movimento antiabortista americano. Certo (e l’autrice lo racconta con accorata partecipazione interiore) non si trattò di un semplice mutamento di opinione: era molto difficile cancellare certezze coltivate per anni, accettare di aver militato dalla parte sbagliata, essere stata complice di un’attività che ora giudicava orribile.
Come non ripensare ai tanti che aveva visto radunarsi a pregare fuori della clinica degli aborti, quei tanti che, rifiutando gesti provocatori e clamorosi, ma affidandosi soltanto all’orazione, le avevano sempre causato una sorta di profonda inquietudine? Nonostante numerose comprensibili difficoltà, Abby Johnson ha avuto il coraggio di andare avanti, senza odio e risentimento, ma con una nuova granitica sicurezza, quella che, dopo aver preso parte a un’interruzione di gravidanza, le ha fatto esclamare: «Mai più! Mai più!».
di Maurizio Schoepflin
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