Il libro di Rossella Pace, Partigiane liberali, riempie un vuoto storiografico che è in qualche modo duplice: da una parte ricostruisce, attraverso esperienze molteplici di donne impegnate nell’antifascismo e nella Resistenza il ruolo e la partecipazione delle donne liberali nella guerra di liberazione; ma nel far ciò getta luce nuova anche nella storia più complessiva del partito liberale in quegli anni, e di come visse la Resistenza, in genere appiattita sulla esperienza eccezionale ma considerata unica e anomala di Edgardo Sogno.
Pace racconta, sia pure per sommi capi, le vicende delle diverse «bande» e formazioni partigiane, che affiancarono quella più nota della «Franchi», maggiormente simile alle caratteristiche del maquis francese che non a quella delle formazioni partigiane italiane. Vengono seguiti alcuni personaggi importanti pur se tralasciati o poco noti nelle storie della Resistenza, da Anton Dante Coda, rappresentante del PLI nel CLNAI a Umberto Lazagna, membro per i liberali del Comitato militare per la Liguria. E l’esperienza ligure si mostra, non solo per motivi contingenti e la presenza di numerose personalità, ma per i caratteri della lotta partigiana in quella regione, particolarmente significativa e importante. Uomini liberali hanno spesso un ruolo di primo piano all’interno dei servizi di intelligence, come Leopoldo Trotti che diventa comandante dell’Ufficio Informazioni Militari del Comando regionale ligure.
Ed è da qui che si dipana la parte più ricca e innovativa del volume, quella dedicata alle donne, alle segretarie del CLN ligure Maria Eugenia Burlando e Marcella Alloisio, ma anche a Giovanna Boccardo e soprattutto ad alcune figure che appaiono decisamente fondamentali pur se poco note: da Virginia Minoletti Quarello, sulla base delle cui memorie e corrispondenza l’autrice ripercorre momenti e problematiche cruciali di quegli anni, a Maria Giulia Cardini, croce militare di guerra e liberata dopo il suo arresto grazie allo scambio con la figlia del console tedesco a Torino, rapita per questo scopo. Le memorie e le testimonianze di Cristina Casana, di Giuliana Benzoni, di Mina Ruffini, di Paola Cotta e di altre protagoniste poco conosciute, c’illuminano sulla consapevolezza politica di queste donne, le reti di cospirazioni e di solidarietà che mettono in piedi, il ruolo particolare che alcuni «salotti» femminili svolgono nel mondo dell’antifascismo, soprattutto quello vicino a Maria José, il lavoro nell’assistenza ai prigionieri di guerra e alla logistica dell’insieme dell’antifascismo liberale.
Pace affronta e racconta con intelligenza il fallimento del tentativo di creare un CLN femminile, le divergenze tra i Gruppi di Difesa della Donna e il Comitato di coordinamento femminile antifascista che portano a una loro divisione; ma riflette anche sui motivi della scarsa presenza, nelle storie della Resistenza, dei liberali e della loro composita e anche contraddittoria partecipazione (con divisioni interne che vengono sommariamente ricordate). La spiegazione viene attribuita ad alcuni motivi, tra cui una sorta di sindrome di «autoesclusione» dalla narrazione e dalla memoria resistenziale, che diventa più forte dopo la rottura politica con i partiti di sinistra nel 1947 e che è accentuata dalle stesse divisioni interne al PLI che non riesce a raccontare, se non poco o male, quanto ha compiuto nell’ambito della Resistenza.
Proprio per la profondità e intelligenza di queste considerazioni conclusive, una sorta di suggello interpretativo alla narrazione condotta nel volume, appaiono un po’ datate e poco convincenti alcuni giudizi posti nelle pagine introduttive, che sembrano invece attribuire quel silenzio alla prevalenza di una lettura «di sinistra» della Resistenza, che certamente ci fu ma che sembra avere dominato – e senza provare a interrogarsi sui motivi – non solo il discorso pubblico, le celebrazioni e la propaganda ma l’intera produzione storiografica, che fu in proposito, invece, assai articolata, anche se ovviamente limitata ideologicamente rispetto a quanto venne fatto soprattutto a partire dagli anni ’70 e ancor più dagli anni ’90. Un ulteriore elemento critico mi permetto di rivolgere all’autrice anche sul modo in cui affronta la produzione di Giampaolo Pansa: non c’è nel libro un suo chiaro giudizio su di essa, se non che essa venne definita “un misto tra romanzo storico, feuilleton e pamphlet” (definizione in cui mi ritrovo), ma si ricorda, invece, che venne aspramente criticato per avere «infangato» la Resistenza da parte di una storiografia militante. La storiografia «militante» per fortuna è sempre stata poco significativa e influente sul terreno della ricerca (diverso il suo impatto su una parte dell’opinione pubblica), ma non ci si può nemmeno limitare, a proposito dell’ultimo libro di Pansa, a parlare della “controversa morte” del comandante Bisagno, quando lo stesso Pansa, dopo aver difeso per tutto il libro l’ipotesi di una sua uccisione da parte dei partigiani comunisti, conclude che quella è la sua «convinzione» anche se non ci sono prove fondamentali a suffragarlo. Mentre ce ne sono, invece, tantissime, sulla morte accidentale che privò tutto il movimento partigiano nel dopoguerra di uno dei suoi capi più prestigiosi e capaci.
Al di là di queste ultime osservazioni – troppo lunghe rispetto alle poche righe che vi dedica Rossella Pace, ma che mi hanno colpito e su cui ho voluto quindi dire qualcosa – vorrei terminare ringraziando l’autrice per questo bel libro, documentato e innovativo, che offre un contributo originale agli studi non solo sulla Resistenza ma sulla vita politica antifascista negli anni della guerra.
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