Da Il Garantista del 29 luglio
Il cuore dei calabresi che batte sotto le macerie
“Chi ha immensamente amato si merita l’immensità dell’oblio».
dicono i berberi, quelli che vivono nelle oasi perdute del deserto libico e parlano solo la loro lingua e si ritengono il primo dei popoli nato sulla terra, quando la storia del resto del mondo non era ancora iniziata. Per loro quell’oblio è un premio. Per i calabresi delle montagne la vita viene portata in braccio, dal deserto all’Aspromonte, dall’Africo, il vento di libeccio, e quando si muore il vento libico riporta la vita lì dove è nata, nell’oceano del Sahara. La dimenticanza è una conquista di chi ha amato tanto. E in Calabria nulla è come sembra. Così, per la bizzarria del vento, il romanzo scritto nel 1959 da Serafino Maiolo riemerge dalle sabbie che si era conquistato, e l’editore Rubbettino, di Soveria Mannelli, ripubblica “C’è ancora una stella” consentendo a chi lo voglia leggere di salire su un vecchio postale che, ansimando, affronta le curve della provinciale.
E risale le Serre calabresi, spinto più dalle preghiere dei passeggeri che da un motore asmatico, in agonia da chissà quanto tempo; piombando in una notte d’inverno, di pioggia e nebbia a tratti. Di fretta di arrivare e di voglia di non arrivare mai. Di stomaci e cuori in tumulto. Vicini a Ornella e Bruno, i protagonisti del libro, addossati l’una all’altro sui sedili di una fila centrale, stretti per farsi coraggio in quel viaggio verso la fine del mondo.
E il mondo, in mezzo alla piazza deserta in cui il bus si ferma, la Calabria di quasi un secolo fa, è lo stesso mondo di oggi; perché non solo nulla è come sembra ma niente cambia e quella descritta da Maiolo è la solita immutabile, cosmicamente immobile, terra odierna. E per carpirne l’essenza questo romanzo è un utilissimo strumento che si trasforma in romanzo sociale e poi in saggio realizzando un affresco attuale della società descritta e del contesto nazionale che la contiene e ne influenza la sorte.
Un racconto dai tratti epici, come epica è tutta la letteratura calabrese che narra le gesta di un popolo più che le storie singole degli individui o delle minuscole comunità che compongono il mosaico.
Un modo di scrivere che è assolutamente originale ed è del tutto peculiare ai più grandi scrittori della regione e anche alla sua letteratura contemporanea, che affonda le radici in quella che è una delle opere fondamentali della storia della letteratura alla quale hanno attinto in tanti senza riconoscerne la fonte. La Chanson d’Aspromonte, il poema epico calabrese dell’undicesimo secolo, padre di tutta la chanson de gente. È un amore totale per la propria terra, oltre che una grande conoscenza di essa, che ha permesso all’autore di realizzare un racconto lucido, impietoso e profetico che accompagna chi legge fra il vento e gli spruzzi del cielo ad avventurarsi nei vicoli odorosi di miseria per scoprire che ciò che anima e accomuna i calabresi non è la rassegnazione e nemmeno la speranza, ma la fede. Una fede particolare che non è un sentimento religioso e non affida il destino né a un Dio cristiano né a una divinità pagana. È la certezza di un evento che muta in meglio la sorte, una tigna incrollabile che poggia su se stessi, sulla impossibilità della resa, su quel conquistare granello per granello un giardino al granito dei monti. La battaglia per la stella che inevitabilmente sorge a oriente a illuminare il cielo, a fargli superare i millenni a venire come è stato per quelli trascorsi. «Ornella guarda Bruno negli occhi e Bruno appoggia le nocche sul legno fradicio della porta senza che ne esca un suono».
È la storia di un’emigrazione al contrario, di un ritorno dal nord a casa propria, per lui calabrese e lei emiliana, giovani sposi in cerca di un’opportunità che l’alta Italia non gli ha voluto dare e che se la vanno a cercare fra le montagne delle Serre.
«Le suppliche silenziose di Ornella gli diedero forza, la mano di Bruno si appesantì e il bussare divenne attacco disperato. L’antro si aprì e videro cosa sarebbe toccato loro nei giorni a venire: secoli d’ignoranza e miseria arginati dall’ostinazione e da sentimenti puri coperti da due dita di fuliggine. E il cuore di Ornella si spartì dal suo corpo, l’uno voleva la fuga e l’altro un letto e un tozzo di pane.
E per il bisogno di Ornella, Bruno affrontò la collera dell’ignoranza, prima di ritrovare un padre e una madre. Così, alla fine del mondo, nonostante tutto, la vita riprese il suo corso e il futuro sorse su due anime in fuga, nell’alba livida di un posto a oriente».
La storia di Maiolo è ambientata nella Calabria fascista in un villaggio in mezzo ai monti, Fabrizia. Un paese diviso in caste, in cui, come in un alveare, ognuno occupa la celletta che gli è stata assegnata; un mondo gerarchicamente diviso, dall’alto dei galantuomini al basso dei villani che però si spartiscono il medesimo inferno, bestemmiano lo stesso dio, e costituiscono le tessere dello stesso domino, che vanno giù e si rialzano, senza che ci sia una forza in grado di atterrarli per sempre. In quell’inferno, Ornella ci si infila con le sue vestine colorate, passeggiando fra i castagni e gli sguardi cupidi di uomini maturi e gonadi in erba. Bruno si affida alle sue mani callose per mutare la sorte e per un anno inchioda assi per l’armatura di una diga costruendo il proprio destino, incurante dei pugni del fato, come hanno sempre fatto e faranno dalle sue parti.
La Calabria Maiolo ce la mostra attraverso i propri occhi e poi ce la fa vedere con quelli di Ornella, una ragazza emiliana dai fianchi stretti e la bellezza austera. E ce la fa vedere ancora dal punto di vista dell’ingegner Moretti, in realtà solo capomastro senza titoli di studio, rappresentante tuttofare di una grande impresa settentrionale chiamata a realizzare una mega opera edilizia per il progresso del meridione, dedito più che al lavoro alla conquista di cuori e al tradimento di speranze paesane. A entrare nei sentieri che traccia il libro, camminando nella Calabria del primo Novecento ci si ritrova in quella dell’inizio del secondo millennio; respirando «fra i capelli odorosi di Giannina, fra l’ansimare dei suoi sensi ingenui e primordiali, il fluttuare dei suoi seni e fianchi generosi»; guardando oltre «la fuliggine spessa che nasconde il cuore del Camuluso».
A seguire con attenzione le analisi sociali di Maiolo si rischia di disseppellire il cuore della Calabria che batte sotto metri di macerie reali e mediatiche; e capire che in fondo i calabresi lo sanno bene che nessuno verrà a indicare strade. Se la troveranno da soli la stella che, a oriente, arriva prima o poi a illuminare la notte più buia.
Di Gioacchino Criaco
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