Da Internazionale del 16 gennaio
Tradotto da Elio Miracco, il romanzo evoca il periodo della confusa transizione da dittatura a democrazia vissuto dall’Albania. Il punto di vista è quello di uno scrittore che ha fatto dieci anni di galera e lavori forzati, e che sceglie come chiave del suo racconto la figura di Ema, una giovane oppositrice uccisa dagli sgherri di Hodja, l’amore per lei e i suoi tentativi di far aprire in Europa un’inchiesta sull’atroce condizione delle donne nelle carceri del regime. Lo stile è di un espressionismo spesso eccessivo, mimetico; l’autore mira al romanzo di sintesi su un’epoca confusa e stridente, che l’Italia ha vissuto di riporto e con molta ipocrisia. Tra Tirana, Scutari, Roma, Parigi, Vienna, in un’Europa che è stata (ed è ancora) duplice, è una volontà di giustizia che presiede al ricordo e alla sofferenza del narratore.
Ed Ema è personaggio che si fa simbolo, come nei non dimenticati romanzi carcerari di Yacine (Nedjma) o Bufalino.
La sofferenza con cui Zhiti narra e si narra è a tratti lancinante, nel rifiuto di prendere, come fanno tanti scrittori, “le piaghe dei perseguitati per appiccicarle al proprio corpo come una specie di tatuaggio nuovo”. Sono forse l’impossibilità di una distanza e la troppa ambizione i limiti di questo duro romanzo, il suo elogio dell’ansia e della non pacificazione. Ma è impossibile non capirne le ragioni, e non approvarle.
Di Goffredo Fofi
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