Sandro Abruzzese, giovane scrittore irpino, residente a Ferrara, apre il suo “Mezzogiorno padano” (Manifesto Libri) citando Rocco Scotellaro. “Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia Patria è dove l’erba trema. / Un alito può trapiantare / il mio seme lontano”.
Versi che esprimono il senso di un’esistenza precaria, barcollante tra equilibri instabili, tremolanti e, insieme, il coraggio umano di stare, con le proprie piccole storie, sulla scena del mondo. E la stessa fragilità può farsi patria, trapiantabile, per cause di forza maggiore: il lavoro, il cuore, la malattia, lo studio. Mezzogiorno Padano è una galleria di relazioni umane che si raccontano, con due punti di vista, messe allo specchio. Nel dipanarsi delle storie, la vista si manifesta come una moltiplicazione di spazio e tempo e, forse, di ulteriori dimensioni percettive ancora ignote.
Sullo sfondo, un Sud che negli anni esporta intere città, mentre chi parte vive un difficile intrico di emozioni, variabili tra rancore, rimorso, rimpianto, desiderio. E si iscrive all’”anagrafe dell’irrequietezza”. “La mia terra è il mio corpo e tutto ciò che riesce a sentire”. Le storie presentate sono diverse: di pensionati, di giovani, di malati, di perniciosi luoghi comuni sul Sud e di altre ferite nelle quali Abruzzese intinge una penna sapiente, dalle gradevoli venature liriche, nonostante storia e natura si abbeverino, al Sud, alla fonte dell’ingiustizia. Per illudersi di fermare il tempo, a mani nude.
Proprio in questi giorni, Abruzzese propone un nuovo lavoro, intitolato Casapercasa (Ed. Rubbettino, 2018). Gli abbiamo rivolto alcune domande.
Che rapporto sussiste tra questi due suoi lavori e come nasce Casapercasa?
CasaperCasa, come Mezzogiorno padano, è un pezzo di un mosaico sull’Italia. Il libro sostituisce la precedente prospettiva meridionale con uno sguardo sulla Penisola vista dal settentrione padano. È quindi un viaggio nello sradicamento odierno, tra rancori e paure, xenofobia crescente e fallimenti bancari. Ed è un altro modo per raccontare questo Paese ambivalente: forte e spaccato, generoso e squilibrato, che comincia a mostrare anche il risvolto politico della sua separazione socio-economica.
CasaperCasa inoltre, pensando a scrittori molto diversi come Bassani e Celati, al magistero di Vito Teti, è un romanzo sui luoghi, sulla città di Ferrara, sulla sua storia recente, e sul rapporto che la città stessa intesse con lo spazio esterno, con le terre basse e nuove, con i fiumi, le nebbie. Ferrara così, con le sue forme, con il suo corpo fatto di punti di fuga e quinte teatrali, assume le fattezze di un promontorio in grado di mostrare da una parte la sua vecchia idea di mondo, il suo senso antico, e dall’altra il divenire inarrestabile di nuovi, inediti rapporti sociali. È il simbolo di un’intera nazione avvolta nella sua arnia di bellezza e chiusa nelle sue puerili volute.
Lei vive e insegna a Ferrara. Può descriverci il suo rapporto col Sud?
Sono un ragazzo del Sud, dell’Irpinia più interna, ho studiato a Napoli, ma sono diventato insegnante e padre sul Garda e poi a Ferrara. Sono quindi un mezzogiornopadano come tanti, un cittadino ibrido, non contemplato nei censimenti ma di cui questo Paese è pieno, questa condizione, lo stupore generato dall’incontro con il Nord, mi ha spronato a studiare la mia condizione e quella degli altri, a narrare, fotografare, mappare l’Italia e l’Europa dello spaesamento. Quindi, al senso di colpa per essermi fatto trasportare altrove, e quasi inconsapevolmente, ovvero seguendo la naturale inclinazione del declivio rappresentato da questa Penisola, ho sostituito una costante attenzione e voglia di comprendere il Mezzogiorno, l’Italia intera, e poi di fungere da cerniera e riavvicinare i lembi di questo sfilacciamento. Per questo, passo due mesi all’anno nel meridione e soprattutto in estate lo batto palmo a palmo, avverto il bisogno di cartografarlo, di riallacciare i fili e ricostruire i legami. Insomma, cercando di rifuggire il più possibile la retorica e l’irrazionalità da cui l’Italia è stritolata, tento di spiegare il Nord al Meridione e viceversa. Non è facile, e soprattutto non sempre mi riesce.
Che cos’è oggi, per Sandro Abruzzese, la questione meridionale?
È ciò che scrivevano Gramsci e Carlo Levi: è la Questione nazionale, dello stato italiano, il suo fallimento. Più che alla dicotomia Nord/Sud, quindi, penso a quella ancora più annosa tra città e campagna. È il nostro sistema industriale, tecnologico, massmediatico, – in una parola urbanocentrico, – a generare la maggior parte dello squilibrio, che siano i Balcani o la Grecia, l’Andalusia, il modello si replica. Si tratta di una cultura violenta, antidemocratica e totalitaria che ha causato invece dell’emancipazione, la deportazione dei contadini italiani e meridionali, e ora dei laureati e diplomati.
Ed è un fallimento, – non è severo il giudizio, – poiché se è ragionevole chiedere un sacrificio temporaneo a una parte del Paese, non lo è di certo fondare quest’ultimo sulla base di un perenne sacrificio. È chiaro che questo fenomeno non è solo italiano ma globale, e per le caratteristiche intrinseche al territorio, ha colpito in maniera esiziale il Sud, ma non solo. Ho visto i medesimi risultati sull’appennino bolognese o reggiano, oppure nel delta padano, nella bassa veronese, sui monti lessini. Certo, lì la distanza dal Nuovo Mondo, dall’America padana, come la chiamo io, è minore, ma la sostanza non cambia.
La Questione nazionale riguarda sicuramente il problema del lavoro, che considero il primo punto da cui ripartire per fermare le partenze, tuttavia forse ancor più del lavoro è stata la colonizzazione culturale a infliggerci i danni maggiori. Non siamo stati in grado di capire e difendere il senso di appartenenza dell’Italia precedente, il radicamento dato dalle relazioni umane intessute, la solidarietà. Non siamo stati in grado di difendere i luoghi, il tempo. È stato come se l’Italia avesse due faglie, quella geologica e quella politica. Due nemici del genere sono troppi, a due terremoti è difficile sopravvivere. E i migranti hanno risposto con la consueta pazienza, con la rassegnazione e il sacrificio di intere generazioni, motivo per cui il debito verso di loro rimane impagabile.
Abbiamo avuto delle classi dirigenti limitate, ma il bello è che ora ci tocca assistere alla rivincita del popolo italiano inurbato, immemore di ciò che era e che ha subito, preda del populismo xenofobo; ebbene questa massa invece di individuare i responsabili dello sfacelo, riversa il proprio rancore sui nuovi migranti. Si rinchiude in ottusi nazionalismi. È un vero colpo di teatro: i responsabili dei fallimenti, grazie a certo giornalismo, sono riusciti a far sì che i mastini, i cani da guardia dei pochi privilegi rimasti, fossero quegli stessi italiani immemori, contro i nuovi diseredati e ultimi della terra. Gli italiani, nel volto dei nuovi disperati, non riconoscono quello che erano, oppure, proprio perché lo riconoscono, cercano in ogni modo di scacciarlo.
È l’ennesima sfida culturale: dovremmo avere coraggio e invece impera il populismo, i neofascismi. Questo mi fa dire che il prezzo dell’ignoranza lo pagano sempre gli stessi clienti.
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