C’è tutta una tradizione letteraria italiana (e svizzero italiana) che lavora sulla ricerca di una lingua per dire il mondo contadino – da Verga a Pavese a Martini. In questo territorio si colloca anche La pozza del Felice. Nel secondo romanzo di Fabio Andina, che riprende le ambientazioni della raccolta Il paese senza nome(nell’antologia Dieci racconti per Piero Chiara, Varese, Pietro Macchione Editore, 2016), a dare forma ai ritmi della vita rurale è, prima ancora dell’ambientazione, una serie di precise scelte linguistiche.
Siamo a Leontica, in una Val di Blenio che potrebbe anche essere quella degli anni Cinquanta se non fosse per gli squarci di musica metal e gli squilli dei «natel» (l’elvetismo, si vedrà, è ingrediente dell’impasto linguistico del libro). Il narratore senza nome e senza età (dapprincipio pare un ragazzo, poi rivela ricordi «di quasi quarant’anni [fa]», p. 142) abita da un anno nella baita di famiglia, «fuggito dalla città» (p. 16). Lì vicino vive il vecchio Felice, spirito indipendente ancora calato nei ritmi di un tempo, a cui l’anonimo chiede «se potevo seguirlo nelle sue giornate. Per vivere un po’ come fa lui» (p. 5).
Il romanzo è la cronaca di queste giornate minime. Si aprono con una camminata notturna alla volta della pozza del titolo, dove Felice si bagna ritualmente ogni mattina:
«In paese si mormora da una vita che il Felice ogni mattino s’incammina mentre il gallo ancora dorme e va, solo il diavolo lo sa dove, a immergersi tutto nudo come un verme in una pozza d’acqua gelida» (p. 6).
L’immersione del narratore (e del lettore con lui) nella pozza è un trasparente preludio all’immersione, promessa dal romanzo, nella quotidianità di Felice. Per compierla, il narratore lo tallona nelle sue giornate, descritte mossa per mossa:
«Fa tre passi e si mette ad arieggiare l’aiuola dei porri a mani nude, con le dita, come si farebbe con una zappetta. Preciso e metodico, da sinistra a destra facendo il cerchio a ogni piantina. Prima di rialzarsi, raccoglie e stringe nel pugno della terra. Apre il pugno e osserva la pallottola scura, umida e compatta, l’annusa, poi la fa cadere sbriciolandola. Infine strappa un’erbaccia, forse l’unica che mi riesce di vedere. L’orto è ben curato. Raccoglie due rametti di rosmarino ed entra in casa. E subito esce con il foglio di giornale fatto su in una mano e il pentolino nell’altra e va a buttare sul compostaggio le bucce delle castagne e le erbe usate per la tisana. Poi rientra. Dopo un attimo lo raggiungo, richiudendomi la porta alle spalle» (p. 17).
Il romanzo avanza così, di gesto in gesto, di giornata in giornata; la trama è il procedere inarrestabile dei due uomini per il paese, tra commissioni e incontri con gli abitanti. Non ci sono svolte inaspettate: l’unico elemento che promette una sorpresa è una misteriosa lettera (dalla Cina?) consegnata a Felice nel secondo capitolo, suscitando i bisbigli dei compaesani; ma l’enigma resta solo sullo sfondo. Anche la maturazione del narratore, segnata dal suo graduale smarcarsi, negli ultimi capitoli, dal ruolo di “ombra” del vecchio, affiora appena dal fluire costante di episodi – quasi che l’attenzione minuziosa al piccolo gesto, al concatenarsi degli atti, vada a scapito della costruzione di un arco narrativo più ampio, che trascenda l’azione puntuale per dare un senso complessivo al percorso dei personaggi.
La segmentazione della vicenda in episodi concatenati è rispecchiata e ribadita da una sintassi che avanza massicciamente per coordinazione, modulo che permette di inanellare proposizioni senza porle in una gerarchia. Andina riesce a mantenersi fedele alla coordinazione per paragrafi interi; non ostacola lo scorrere del periodare neanche il discorso diretto, amalgamato com’è alla voce del narratore dall’assenza di virgolette:
«Si alza in piedi, esce dalla pozza, si ripara dalla pioggia con l’ombrello e si mette immobile su un sasso a guardare i puntini bianchi dei lampioni giù in valle. Mi dà di spalle. Allora contemplo la scura pozza. Mi dico chi me lo fa fare, ho freddo, piove, è buio. Però l’ho voluto io. Mi spoglio e m’immergo, con una specie di tuffo e urlo anche qualcosa ma non so che cosa. E mi sbuccio le ginocchia sul fondo sassoso» (p. 11).
A frangere il flusso della coordinazione intervengono talvolta le frasi nominali, in cui si cristallizzano le descrizioni («Tutt’attorno, prati da pascolo lavati dall’acqua e nell’aria profumo di freschezza», p. 12); altre volte qualche rada subordinata, per lo più implicita. Delle subordinate esplicite, quando occorrono, capita che si rimarchi l’eccezionalità isolandole con il punto, così da trasformarle, almeno per l’occhio, in principali apparenti: «È immerso nell’acqua e lascia fuori giusto il naso. Che sbuffa vapore» (p. 10).
Si potrebbe pensare che Andina prediliga questo andamento perché evoca una lingua colloquiale; se così fosse, la prevalenza della coordinazione richiamerebbe la parlata semplice dei personaggi, e avrebbe la stessa funzione del ricorso, all’interno dell’italiano piano del narratore, a parole e costrutti dialettali (l’aggettivo poro riferito ai morti, sostantivi come pocia, bocia, boascia, il costrutto sembrare a, l’articolo determinativo prima dei nomi – già nel titolo…). In questo testo, però, Andina fa più che usare la coordinazione per spennellare la voce narrante con una coloritura informale: limitando fortemente l’uso delle subordinate, l’autore sceglie di rinunciare a tutto l’apparato del pensiero razionale che esse – modulando il discorso in sfumature finali, causali, concessive – permettono di esprimere. Di conseguenza, gli eventi non vengono presentati all’interno di una logica di causa-effetto: unica chiave di lettura ammessa da Andina (e dai suoi personaggi) è il tempo. Cosa accade prima, cosa dopo? Ne è esempio il brano sulla misteriosa moglie di Felice:
«Eppure, anni fa, una donna ha vissuto fra queste mura. Uno o due anni dopo il suo ritorno dalla Russia, il Felice si era sposato con una tedesca, scomparsa poi dopo alcuni mesi. Se n’era andata un giorno di primavera senza fare rumore, come un petalo che si stacca da un fiore e il vento lo porta lontano. Si vocifera che non hanno mai divorziato, ma di lei nessuno sa più niente» (p. 84).
La vicenda della donna viene descritta rinunciando a ogni possibile analisi: non c’è un perché, il fatto viene riportato solo nel suo dispiegarsi temporale, sottolineato dall’incalzare dei costrutti tempo fa, uno o due anni dopo, poi dopo alcuni mesi, un giorno di primavera. Le scelte linguistiche di Andina sembrano allora cercare di rispecchiare un mondo rurale sottomesso alle leggi del tempo: un mondo in cui le stagioni cadenzano i gesti e il fluire delle giornate basta a dare conto dello svilupparsi degli eventi.
L’insistenza sulla dimensione temporale è ribadita anche dalla predilezione per l’indicativo, modulato soprattutto al presente e al passato. Oltre a scandire le due dimensioni del libro (il presente del narratore e il passato del paese), l’indicativo, prevalendo sugli altri modi finiti, impedisce alla narrazione di sconfinare nel regno dell’ipotesi e del possibile: qui tutto, o quasi tutto, è fenomeno. Si delinea così un ritratto di Felice – e del mondo rurale che rappresenta – in cui si enfatizza la sua prossimità alle cose concrete.
Ne La pozza del Felice c’è una rara coerenza tra l’idea che l’autore ha del mondo rurale, la trama con cui lo racconta e la lingua che dà forma a tutto questo. L’elemento unificante è la coordinazione, che sul piano narrativo si traduce in un inanellarsi di eventi. La fedeltà a essa ha però un prezzo: poiché non si stabiliscono gerarchie tra le proposizioni, non vi sono spie sintattiche a invitare il lettore a soffermarsi su un particolare brano, a costringerlo, quasi, a prendersi una pausa per rimirare un determinato passaggio: già una e lo trascina via verso nuovi momenti, nuove illuminazioni. Il rischio è allora che, nonostante la lunga frequentazione di Felice, alla fine del libro si abbia l’impressione di non essere penetrati davvero nel personaggio, di non essersi immersi nella sua pozza. D’altra parte va detto che, se la letteratura è innanzitutto un processo di continua rifondazione della lingua, intrapreso nel tentativo di arrivare a dire ciò che si sente necessario dire, La pozza del Felice testimonia pienamente questa ricerca, e ci racconta di come Fabio Andina sia arrivato a costruire, per il suo romanzo, una voce.
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