Da La Repubblica – 28 febbraio 2012
Elogio dei riformisti
La tolleranza di Turati, quella piccola lezione per una sinistra smarrita. Un saggio ripercorre la figura del leader socialista e una tradizione da sempre minoritaria in Italia
Che cosa significa essere di sinistra? È possibile ancora esserlo? Sentire nel profondo di appartenere a una storia di libertà, a una tradizione di critica sociale e di sogno, a un percorso che sembra essersi lacerato, reciso. Con un immenso passato e un futuro incerto? E soprattutto di quale sinistra parliamo e di quale tradizione? E come si coniugano le due anime della sinistra, quella riformista e quella rivoluzionaria? Che genere di dialogo c’è stato tra loro?Domande che affliggono militanti, intellettuali e uomini di partito. Domande che affliggono me da sempre. Alessandro Orsini giovane professore napoletano di Sociologia Politica all’Università di Roma Tor Vergata ha provato a dare delle risposte. Ha scritto un libro intitolato Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino). Il titolo sembra presentare un saggio, di quelli accademici, lunghi e tortuosi. E invece credo sia la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni. Che non ha paura di maneggiare materia delicata. Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull’altra. L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all’insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: “Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato. Certo, il pensiero di Gramsci non può essere confinato in questo tratto violento, e d’altronde le sue parole risentivano l’influenza della retorica politica dell’epoca, che era (non solo a sinistra) accesa, virulenta, pirotecnica. Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: “Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all’eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà”.
Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d’origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l’eredità peggiore della pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora. Naturalmente, oggi, nel Pd erede del Pci, non c’è più traccia di quel massimalismo verboso e violento, e anche il linguaggio della Sel di Vendola è molto meno acceso.
Ma c’è invece, fuori dal Parlamento, una certa sinistra che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani. Loro sono i seguaci dell’unica idea possibile di libertà, tutto quello che dicono e pensano non può che essere il giusto. Amano Cuba e non rispondono dei crimini della dittatura castrista – mi è capitato di parlare con persone diffidenti verso Yoani Sánchez solo perché in questo momento rappresenta una voce critica da Cuba – , non rispondono dei crimini di Hamas o Hezbollah, hanno in simpatia regimi ferocissimi solo perché antiamericani, tollerano le peggiori barbarie e si indignano per le contraddizioni delle democrazie. Per loro tutti gli altri sono venduti. Mai che li sfiori l’idea che essere marginali e inascoltati nel loro caso non è sinonimo di purezza, ma spesso semplicemente mancanza di merito.
Turati a tutto questo avrebbe pacificamente opposto il diritto a essere eretici, che Orsini ritiene essere il suo più importante lascito pedagogico. Questo fondamentale diritto ha trovato la formulazione più alta nell’elogio di Satana, metafora estrema dell’amore per l’eresia e dell’odio per i roghi. Satana, provoca Turati, è il padre dei riformisti: “Non siamo asceti che temono i contatti della carne, siamo figli di Satana (…). Se domani viene da me il Re, il Papa, lo Scià di Persia, il Gran Khan della Tartaria, il presidente di una repubblica americana, non per questo rinuncio alle mie idee. Non per questo transigo o faccio atto d’omaggio, ma resto quello che sono, e ciascuno di noi rimane quello che è”.
Ma l’odio per i riformisti, – spiega Orsini – è il pilastro della pedagogia dell’intolleranza. Dal momento che i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori qui e ora, sono percepiti da certi rivoluzionari come alleati dei capitalisti. Questo libro dimostra come, nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori sia un bene (come diceva Labriola) perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria: è il famigerato tanto peggio tanto meglio. I riformisti, invece, non credono nella società perfetta, ma in una società migliore che innalzi progressivamente il livello culturale dei lavoratori e migliori le loro condizioni di vita anche attraverso la partecipazione attiva alla gestione della cosa pubblica. I riformisti – spiegava Turati – sono realisti e tolleranti. Realisti perché credono che non sia possibile costruire una società in cui siano banditi per sempre i conflitti. Tolleranti perché, rifiutando il perfettismo, si pongono al riparo dalla convinzione di avere avuto accesso alla verità ultima sul significato della storia. Turati pagò a caro prezzo la sua durissima battaglia contro la pedagogia dell’intolleranza. Quando morì in esilio, in condizioni di povertà, Palmiro Togliatti scrisse un articolo su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato “il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra”.
Consiglio questo libro a chi si sente smarrito a sinistra. Potrebbe essere uno strumento di comprensione e soprattutto, credo, di difesa. Difenderebbe il giovane lettore dai nemici del dialogo, dai fautori del litigio, dagli attaccabrighe pronti a parlare in nome della classe operaia, degli emarginati, degli “invisibili”, dai pacifisti talmente violenti da usare la pace come strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente. Turati aiuta a comprendere quanta potenza ci sia nel riformismo, che molti considerano pensiero debole, pavido, direbbero persino sfigato. Il riformismo di cui parla Turati fa paura ai poteri, alle corporazioni, alle caste, perché prova, cercando consenso, ponendosi dubbi, ragionando e confrontandosi, di risolvere le contraddizioni qui e ora. Coinvolgendo persone, non spaventandole o estromettendole perché “contaminate”. Non è un caso che i fascisti prima e brigatisti poi avessero in odio soprattutto i riformisti. Non è un caso che i fascisti temessero Matteotti che aveva denunciato brogli elettorali. Non è un caso che i brigatisti temessero i giudici riformisti, i funzionari di Stato efficienti. Perché per loro i corrotti e i reazionari erano alleati che confermavano la loro idea di Stato da abbattere e non da migliorare.
Per Turati il marxismo non può essere considerato un “ricettario perpetuo” in cui trovare la soluzione a tutti i problemi perché uno stesso problema, come l’emancipazione dei lavoratori, può richiedere soluzioni differenti in base ai contesti, ai periodi storici e alle risorse disponibili in un dato momento. Meglio diffidare da coloro che affermano di sapere tutto in anticipo; meglio “confessarci ignoranti””. Turati era convinto che la prospettiva culturale da cui guardiamo il mondo fosse decisiva per lo sviluppo delle nostre azioni. Questa è la ragione per cui attribuiva la massima importanza al ruolo dell’educazione politica: prima di trasformare il mondo, occorre aprire la mente e confrontarsi con i propri pregiudizi. Le certezze assolute fiaccano anche le intelligenze più acute: la pedagogia della tolleranza è il primo passo per la costruzione di una società migliore.
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