La nuova via della seta. L’invasione della Cina. Seconda parte (cronacheletterarie.com)

del 21 Ottobre 2018

Antonio Selvatici

La Cina e la Nuova Via della Seta

Progetto per un'invasione globale

La Cina non guarda più solo all’interno e al passato, ma all’esterno e al futuro. È da oltre un decennio che attua una forte politica d’investimenti diretti all’estero. La politica denominata Going Global si è attuata attraverso piani di acquisizioni e investimenti effettuati da società a controllo pubblico. L’Africa, continente ricco di materie prime e fonti energetiche, è stato il primo obiettivo della strategia cinese, e ha preparato il terreno per il “Belt and Road Initiative”, la Nuova Via della Seta, il più grande e ambizioso progetto di espansione e di conquista globale nella storia dell’umanità (qui trovate la prima parte dell’articolo).

La Cina ha preso coscienza di sé, sostiene Antonio Selvatici nel suo libro La Cina e la nuova via della seta. Progetto per un’invasione globale. Non intende più essere la “fabbrica del mondo” con manodopera a basso costo e operai umili ed emaciati, ma intende diventare la protagonista della nuova globalizzazione e pilotare il processo di ristrutturazione mondiale. Vuole essere una concreta alternativa, anche militare, all’Occidente, un partner globale a cui rivolgersi, un solido punto di riferimento in grado di offrire protezione e vantaggi economici, monetari e politici. Ormai, i Paesi che subiscono sanzioni imposte dall’Occidente (vedi Russia, Iran, alcune Nazioni africane), si rivolgono alla Cina e ottengono ampia collaborazione e linee di credito. Pensiamo alla capacità di pensare e attuare politiche di programmazione economica nel Paese del Dragone: i piani quinquennali, il progetto “Made in China 2025” (piano di ristrutturazione dell’intero sistema produttivo) e La Nuova Via della Seta sono pianificazioni strategiche che il governo elabora, sponsorizza e impone alla sconfinata nazione. In Occidente le democrazie, estremamente sensibili agli umori degli elettori sembrano deboli e cagionevoli. Non vi è una programmazione economica a medio/lungo termine, anche perché la politica sembra preoccuparsi maggiormente dei risultati ottenuti (quando ci sono) nel brevissimo periodo, risultati da pubblicizzare nel corso, e soprattutto al termine, della legislatura. Un perverso meccanismo dedicato alla spasmodica raccolta del consenso. Una visione miope, non si vede lontano. In Occidente lo Stato, più o meno indebitato e legato a perverse regole di regolamentazione del debito pubblico, è più propenso a prendere quattrini ormai indispensabili per la propria sopravvivenza, piuttosto che sostenere ambiziosi e costosi progetti economici sia di portata nazionale che sovranazionale. Lo Stato sembra più propenso a drenare quattrini dalle imprese piuttosto che elargirne per sostenerle. In Cina la mano pubblica (che è ben visibile) sponsorizza fortemente con risorse economiche (e non solo) un determinato settore, ed è probabile che nascano prodotti interessanti, anche perché il profitto è un elemento secondario rispetto alla strategia. Per questo la sfida globale è impari: due sistemi profondamente differenti si confrontano sullo stesso campo di battaglia. La politica espansiva e strategica della Cina difficilmente potrà essere arginata dal vuoto politico dell’Occidente. Mentre noi balbettiamo e litighiamo per le briciole, i cinesi pensano all’arrosto e ai succulenti contorni.

Nella Repubblica Popolare Cinese il governo pianifica e attua politiche economiche che, spesso, non rispondono a logiche di puro profitto ma tendono soprattutto ad assicurare l’ordine sociale e l’armonia a un Paese sterminato, attraverso un pensiero che subordina all’interesse della collettività la garanzia dei diritti civili. Il capitalismo, inteso come raggiungimento del massimo profitto, non è il fine. Il mercato e la produzione sono lo strumento politico-sociale che deve essere alimentato, guidato, calmierato e indirizzato dallo Stato. L’affermarsi della democrazia liberale sarebbe disastrosa.

Se l’ideale a cui aspira il mondo occidentale è l’autorealizzazione, quello a cui aspira l’Asia orientale è l’armonia, la sintonia. Il termine “armonia” ha in Cina la stessa valenza che la parola “libertà” ha in Occidente. Il concetto di opposizione è odioso perché evoca l’idea della disgregazione della società, infatti il termine cinese che esprime il concetto di libertà prende il significato negativo e menefreghista di “faccio quello che mi pare e piace”. Anche il significato che gli asiatici attribuiscono alle parole “Democrazia” e “Dittatura” è diverso dal nostro. La stragrande maggioranza degli asiatici non percepisce la Cina come una dittatura comunista, ma come un grande Paese democratico.

A suo tempo, sotto il Mandarinato, il governo godeva del prestigio del Mandato Divino, e ancora oggi la tradizione cinese gli riconosce una certa autorità morale che da tempo è sparita in Occidente. Nessun’altra grande società ha permeato così capillarmente il suo popolo della convinzione che l’individuo, in quanto tale, conta meno della massa; che l’autorità ha tutto il diritto di regolare il lavoro e la vita di centinaia di milioni di persone a qualsiasi costo, al solo scopo di portare a termine grandi opere per il bene dello Stato; e che lo Stato non va mai messo in discussione finché lavora per il bene comune. A volte noi occidentali fatichiamo a capirlo, ma qui il governo guida lo sviluppo non con la frusta ma con l’entusiasmo.

Un altro aspetto interessante di questo grande progetto sono gli accordi riguardanti i prestiti e la manodopera. Tutte le infrastrutture in questione sono realizzate direttamente da operai cinesi o gestite da aziende cinesi che poi si avvalgono di manovalanza locale. Qualcuno sostiene che la Cina abbia proposto l’amnistia e la pulizia della fedina penale a molti detenuti in cambio dell’espatrio forzato per essere ricollocati nel settore delle costruzioni.

La partecipazione di aziende cinesi, o al limite di Joint Ventures, è una delle poche richieste che la Repubblica Popolare fa per l’ottenimento dei finanziamenti. Secondo la Banca Mondiale, la Cina propone prestiti a condizioni molto favorevoli, senza tenere conto quelli di che sono gli standard minimi per erogare fondi. Le parole d’ordine sembrano essere meno burocrazia e più flessibilità, e questo permette alla Cina di fare grandi accordi senza troppe remore con regimi militari, con Nazioni autoritarie come l’Arabia Saudita, il Congo, l’Uzbekistan, con alcuni tra i Paesi più corrotti al mondo o addirittura in guerra (Afghanistan e Yemen).

E se poi gli Stati che hanno ricevuto i finanziamenti non riescono a restituire i soldi, come è capitato ultimamente allo Sri Lanka? Non c’è (in apparenza) problema! Come da accordi, sarà la Cina a gestire e a disporre delle infrastrutture, cosa che comporterà inevitabilmente la compromissione dell’autonomia dei Paesi, seppur c’è la rassicurazione da parte di Pechino di non ingerenza futura nella politica interna di alcuna Nazione coinvolta nel progetto.

Il pragmatismo che hanno avuto a suo tempo i cinesi nel lasciarsi prima “colonizzare” dalle multinazionali per poter imparare da loro e trasformarsi poi in conquistatori sta dando i suoi frutti.

Lo sfruttamento del lavoro, del territorio, l’inquinamento, il forte tasso di corruzione, le regole poco certe, il non rispetto del copyright, l’esportazione di alimenti con altissimi livelli di pesticidi, gli incessanti e consistenti aiuti di Stato alle imprese. L’economia socialista di mercato è riuscita nel suo intento. Sono stati bravi: in due o tre decenni il grande boom ha sviluppato un enorme trasferimento di ricchezza da Occidente verso Oriente. Ciò ha permesso di far uscire dalla povertà centinaia di milioni di abitanti da una parte del globo ma, contemporaneamente, ha impoverito decine di milioni di cittadini occidentali ignari dell’essere diventati merce di scambio di una visione della globalizzazione distorta.

Il trasferimento di ricchezza tra Occidente e Oriente è il frutto di una competizione scorretta, di modelli economici e politici differenti e incompatibili. Abbiamo silenziosamente permesso e alimentato una sorta di “livellamento globale” e la materializzazione del sistema dei “vasi comunicanti”.
E in qualità di unico creditore in un mondo di debitori, la Cina si propone come la guida del nuovo ordinamento mondiale e la protagonista della nuova globalizzazione, presentandosi ammantata dall’aura romantica e pacifica delle carovane lungo le antiche rotte della leggendaria Via della Seta.
Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme su quella che invece viene definita la “Nuova” Via della Seta. Non si tratta solo di globalizzazione in salsa cinese, ma per Washington una vera sfida di espansione geopolitica. Ed è qualcosa a cui l’America, e l’Occidente in generale, non sono abituati ma che, ahimè, si dovranno per forza di cose abituare in fretta.

Per noi la Cina è lontana, molto lontana. Ma ci dimentichiamo di un’altra leggenda dell’antichità e non ci rendiamo conto che per la Cina noi siamo vicini, molto molto vicini! E’ la leggenda del cavallo di Troia.

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