Nostalgia e crisi della Sinistra nel cinema italiano. Da Berlinguer a Checco Zalone
Da Italia Oggi del 3 maggio
Da quando il cinema italiano, una trentina d’anni fa, ha smesso d’essere un’industria, salvo pochi cinepanettoni qua e là, per diventare un fenomeno ideologico, anzi un fenomeno e basta, la nostra intellighenzia cinematografica – un tempo «bella gioventù», oggi terza età sempre più lagnosa e ciabattona – lo ha colonizzato, trasformandolo in una sorta dí jukebox che suona in continuazione Bella ciao e i cori dell’Armata rossa, come racconta Andrea Minuz in Quando c’eravamo noi.
Carro armato di peluche, la nostalgia cinematografica di tempi più felici, quando il buon vecchio PCI vegliava sul sonno dei giusti, è una malinconica macchina da guerra. Operazione politica strappacore che, mentre ironizza sul melodramma di cui abbonda la fiction bottegaia, inietta dosi da cavallo di patetismo e psicodramma nei canovacci dei film d’autore: le messe finite, le grandi bellezze, e le dichiarazioni d’amore a Enrico Berlinguer. Ci sono il Pci e l’eterno ’68 italiano al centro di questi film girati per lo più a spese dei contribuenti, che non piacciono a nessuno e risultano incomprensibili a chiunque abbia meno di sessant’anni.
Ogni film un manifesto, ogni regista da due soldi un maitre à penser. Attraverso il cinema, «la disfatta ideologica del Pci, il crollo del comunismo e la crisi d’identità della sinistra si sono trasformati in un serbatoio di motivi e figure del rimpianto. Un’epica nazionale a vocazione minoritaria costruita sui modi del melodramma e le forme della nostalgia. Per lo più abitata da personaggi maschili che, ribaltando lo stereotipo associato al melodramma, occupano lo spazio della vittima vessata dal destino e dalle ingiustizie». Guardate come ci hanno ridotti il «liberismo selvaggio», la «volgarità» delle tivù commerciali, i servizi deviati, la pubblicità che interrompe un’emozione, il TG4, Matteo Renzi, la NATO, il bunga bunga e la CIA (un elenco al quale si sono aggiunte Voci 5 Stelle, le scie chimiche, il grano saraceno, la negazione dell’esistenza delle sirene). Resistenze tradite, rivoluzioni mancate, occasioni perdute. Come Alberto Sordi, anche gli ex comunisti e i post sessantottisti sono stati rovinati da la guera de classe, che hanno combattuto da soli contro nemici immaginari e che hanno perduto benché fosse per finta. Siamo stati traditi, Berlinguer è morto, la «questione morale» è irrisolta. E giù lacrime, tutte registrate nei film. Come scrive Alberto Crespi nel recensire Quando c’era Berlinguer, un documentario di Walter Veltroni, il film «è un documentario struggente di fronte al quale piangerete tutte le vostre lacrime». Non una o due. «Tutte».
Berlinguer, la bella gioventù, la resistenza tradita, il Concerto del Primo Maggio, la superiorità antropologica. «Più il peso schiacciante della tradizione comunista diventava politicamente impraticabile, più questa si ritraeva nel mito e aumentava la sua influenza culturale. Così, la parabola umana e politica di Berlinguer è ancora oggi una tentazione irresistibile per gli esercizi spirituali della nostalgia, delle rivendicazioni indentitarie in salsa vintage. Della contrapposizione tra «folle oceaniche» e individualismo digitale. Tra l’Italia vera, in canottiera con L’Unità sotto il braccio, e l’indifferenza tatuata dei post-italiani di oggi». Poi Checco Zalone, resuscitando il cinema commerciale, indossa per ridere una maglietta col faccione di Che Guevara ed ecco il ridicolo restituire lo sguardo a chi ha fissato lo sguardo nei suoi abissi.
di Diego Gabutti
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di Diego Gabutti