Da Domenica (Il Sole 24 Ore) del 3 maggio
Nel 1976, Friedrich von Hayek, insignito del Premio Nobel due anni prima, pubblica un libretto intitolato La denazionalizzazione della moneta. Ai più, pare la bizzarria di uno studioso alle soglie degli ottant’anni, che rivaluta l’obliata tradizione del “free banking”, ovvero quegli assetti istituzionali nei quali c’è moneta ma non corso forzoso né monopolio d’emissione. Ora Rubbettino propone un testo più antico, Nazionalismo monetario e stabilità internazionale, che riunisce cinque lezioni tenute a Ginevra nel 1937. Tradotte da Rosamaria Bitetti, sono accompagnate da due prefazioni, opera rispettivamente di Lorenzo Infantino e José Antonio Aguirre, di grande aiuto nell’avvicinare saggi non fra i più tersi mai scritti da Hayek eppure assai rilevanti.
Prima di diventare un sostenitore di valute “de-statalizzate”, fornite da banche d’emissione in concorrenza l’una con l’altra, l’economista austriaco aveva difeso per tutta la vita il regime dei cambi fissi. Non potrebbero esservi, all’apparenza, posizioni più distanti. E invece queste lezioni aiutano a capire che Hayek si arrovellava sullo stesso problema, cioè come “de- statalizzare” il denaro, sottraendolo all’arbitrio di governi e banche centrali. Per “nazionalismo monetario” egli intende «la dottrina secondo cui la partecipazione di ciascun Paese all’offerta mondiale di moneta non deve essere determinata dagli stessi principi (…) che determinano quali sono le quantità relative di moneta nelle differenti regioni della stessa nazione». Come a dire: l’idea per cui, tramite una valuta nazionale “indipendente”, possiamo isolare un Paese dagli shock finanziari originati altrove. José Aguirre spiega bene come l’obiettivo polemico di Hayek sia il suo amico Keynes. Questi «sosteneva che una banca centrale è in Condizione di poter controllare i “prezzi interni” di un Paese, ma non può fare nulla per controllare i “prezzi esterni”. Limitiamoci a stabilizzare i nostri prezzi e prescindiamo dalla disciplina monetaria del tasso di cambio fisso». In presenza di una autentica «valuta internazionale» (che non è mai esistita, perché pure il gold standard non ne era che un surrogato imperfetto), se c’è un trasferimento di denaro dal Paese A al Paese B, si ha un aumento della quantità di moneta nel Paese B e una corrispondente diminuzione della quantità di moneta nel Paese A. In regime di «nazionalismo monetario», non c’è nessun trasferimento di moneta, ma solo un cambiamento del valore relativo delle valute. Quest’ultimo sistema, predisse Hayek nel 1937, vedrà i diversi Paesi stabilire ciascuno per sé il livello nominale dei prezzi e dei salari. Emancipate dalla tirannia dell’oro, “barbara reliquia”, le monete fiduciarie avranno un’inevitabile deriva inflazionistica. Chiosa Aguirre: negli Stati Uniti, prima dell’istituzione della Federal Reserve, un paniere di beni dal costo di cento dollari nel 1879 sarebbe stato acquistabile al medesimo prezzo nominale ancora nel 1914. Nei cent’anni successivi, nei quali la politica monetaria è stata presidiata dalla Banca centrale, ciò non sarebbe più stato possibile (il che non ha impedito agli USA di diventare la prima potenza economica mondiale).
Nella battaglia delle idee, Hayek ha perso e Keynes ha vinto. L’economista di Cambridge ha immaginato un mondo gradito ai detentori del potere, che non chiedevano di meglio ch’esser affrancati dalla disciplina del pareggio di bilancio e scoprirsi liberi di manipolare il livello dei prezzi (come se ci fosse “un” solo livello dei prezzi, direbbe l’austriaco). L’economia keynesiana è un meccano ricomponibile in nome delle esigenze di breve termine. Per Hayek, tutti questi interventi imbrogliano il sistema dei prezzi e mettono in pericolo le capacità di coordinamento degli attori economici. Il pregio di una valuta “internazionale” è limitare la libertà di far danni del potere politico. Quest’argomento, forse, ha qualcosa da dire anche ai tempi dell’euro.
di Alberto Mingardi
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