Passando dalla tipologia alla storia dell’antipolitica, è possibile rintracciare nella vita dell’Italia contemporanea, come del resto più o meno in quella delle altre democrazie occidentali, tutte le declinazioni sopra individuate, ovviamente sempre in forma spuria e con un diverso rilievo di ognuna di esse a seconda delle stagioni politiche. Gli idealtipi sono utili per far ordine ma la realtà non è mai idealtipica.
L’Italia non è l’ultima delle democrazie approdata a queste sponde. La sua storia è costellata da continue, talora fragorose, espressioni di antipolitica e per questo si conferma «terra promessa del populismo».
Tornano al presente sia le antiche stabili riserve di principio nei confronti in generale alla politica che le ricorrenti accuse di un suo mal servizio reso alla comunità. Di nuovo c’è che l’antipolitica incontra un sempre maggior favore popolare in tutte le sue declinazioni: attive e passive, ideologiche e qualunquiste, mass level ed élite level.
Ovviamente, con tutte le varianti e talora purtroppo anche con le numerose, pesanti aggravanti accumulatesi nel corso della storia che hanno reso oggi l’Italia, se non la patria elettiva, almeno il luogo dove l’antipolitica riscuote forse la maggior fortuna. Trova proseliti sia a destra che a sinistra. Dilaga nei programmi e nei codici comunicativi dei partiti, nel linguaggio dei leader e nell’immaginario dell’uomo della strada. Seduce tanto i comuni cittadini quanto la classe dirigente.
Il suo ingombro nella vita democratica, il rilievo assunto dalle sue parole d’ordine, la pervasività del suo linguaggio sono così pronunciati da averle fatto conquistare posizioni di testa nella competizione politica nazionale e grande rilevanza in quella europea.
La pianta dell’antipolitica è potuta divenire così rigogliosa evidentemente perché, come si accennava, ha radici profonde.
A sedimentare storicamente nell’immaginario degli italiani un sentimento irriflesso di estraneità/ostilità alla politica ha offerto un contributo determinante, innanzitutto, la plurisecolare esperienza di dominazioni straniere e signorili subite.
Il destino di una sudditanza passibile di variare nel tempo solo per la titolarità di chi la esercita ha ingenerato un riflesso di irrimediabile passività. Una volta appurato che non c’è scampo, l’unico spazio politico a disposizione del suddito è di favorire quello dei contendenti per lo scettro del potere gli paia meno temibile.
Un modo, a dir poco, disincantato che la saggezza popolare indica come l’unico utile a rimediare il meno peggio. «Franza o Spagna purché se magna» è il motto con cui si suole volgarmente etichettare il tradizionale comportamento adottato dagli italiani nei confronti della politica. Dove il cinismo è pari solo al disincanto.
L’aforisma attribuito al Guicciardini ben illustra l’orientamento maturatosi nel corso di interi secoli (Cinquecento e Seicento soprattutto) nei confronti della cosiddetta “grande politica”, orientamento presto tradottosi in norma di vita delle nostre popolazioni.
Esso non fa che volgarmente riflettere il senso di alienazione e di frustrazione provato nell’aver assistito inermi alla lotta di potere ingaggiata sulle loro teste da potenze straniere – la Francia appunto e l’Impero allora legato alla corona spagnola –, nel mentre principi e signori locali erano impegnati a offrire un deprimente spettacolo di opportunismo e di servilismo nel penoso, spesso inutile tentativo di salvare le loro corone.
Ne deriva che la «cura dei pubblici affari» – quelli politici per eccellenza, riguardanti cioè le relazioni tra gli Stati, la difesa, l’ordine, l’esercito – è stata vissuta come una risorsa stabilmente sequestrata da poteri “altri”.
Una risorsa espunta dall’orizzonte di vita dei sudditi, non esercitabile nemmeno dalla comunità d’appartenenza – locale, regionale o nazionale che fosse – non si dica per influire sul normale corso degli avvenimenti, ma nemmeno per migliorare le proprie condizioni di vita. E questo, ben inteso, è valso tanto che si trattasse dei singoli quanto della collettività.
L’estromissione dalla sfera della politica, unita alla mancanza di risorse a disposizione con cui influire su di essa, oltre ad alimentare – come s’è detto – un senso di stabile ostilità nei suoi confronti, è stata la premessa per sviluppare tanto comportamenti individuali opportunistici quanto occasionali moti di rivolta collettivi.
Per accedere ai luoghi alti della politica il singolo non aveva altra possibilità che far leva sul rapporto di devozione personale coltivato col potente locale di turno, il classico rapporto patrono/cliente proprio del paternalismo. Se la sfiducia nella possibilità di influire sulla politica induceva il singolo a ricorrere alla protezione del patrono, quando il malcontento raggiungeva l’acme e la situazione superava il comune senso di sopportazione, spingeva “gli esclusi” a passare direttamente a vie di fatto.
La violenza suppliva allora all’indisponibilità di altri mezzi per rimediare all’inaccettabile. Clientelismo e ribellismo sono insomma le due varianti di esercizio della politica quando le porte ufficiali di accesso sono sbarrate.
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