Da La Gazzetta del Sud del 20 maggio
Walter Pedullà, bandiera storica della critica letteraria militante, dice che negli anni ha cambiato idea sul Sud e la sua letteratura: ora gli sembra messo peggio il primo e meglio la seconda. Lo dice, parlando di romanzi e racconti di narratori del Mezzogiorno, nel ponderoso volume “Il mondo visto da sotto. Narratori meridionali del 900” (Rubbettino editore, pp. 632, euro 19) in cui raccoglie le sue idee sul meridionalismo, naturalmente in rapporto al linguaggio letterario meridionale.
Pedullà, precisa subito che quando si parla di letteratura, le idee si possono sbagliare, ma la struttura della narrazione è sempre lì «a dire che gli atti sono gratuiti, ma esprimono un desiderio occulto che fa da sismografo all’inconscio». Fa un ragionamento che sembra difficile, e forse anche contorto, ma vi ricorre per mettersi in linea con quelle psicologie, a loro volta contorte, che sono tipiche della narrativa meridionale. Spiega, Pedullà, che la narrativa, partendo dal meridionalismo, va oltre, racconta altro, tutta la vita del Sud e anche molto di più. Chi, scriverebbe solo per la propria regione, e per la sola attualità, si chiede l’autore? E cita subito Stefano D’Arrigo, che non avrebbe cominciato, se non avesse creduto di «aggiungere vita alla vita». Riconosce, il professore emerito dell’Università “La Sapienza”, di avere negli anni cambiato idea sugli autori meridionali, dato che è difficile stabilire, con certezza, ciò che è maggiore e ciò che è minore.
Chi legge il libro, e conosce Walter Pedullà, avrà la sensazione di sentire la voce del consumato affabulatore di radice calabro fonica (è nato a Siderno). Scrive come parla, con un’ironia che non l’abbandona neppure sui temi difficili: «Con gli anni – quasi gli si sente dire – mi è cresciuto Lampedusa e ristretto Borgese: il narratore, non il critico, che oggi sembra aver capito il Novecento più di Serra».
Almeno dieci narratori memorabili si trovano in una sola regione (la Sicilia) sostiene Pedullà e fa notare che in un secolo non sono pochi: «Nessun’altra regione italiana ne ha altrettanti, ma non azzardo una spiegazione. Anche le altre hanno fatto il loro dovere verso il Sud e verso l’Italia».
Il “sotto”, da dove guarda la narrativa meridionale raccontata nel saggio, riunisce scrittori di tutte le regioni collocate sotto le Marche e sotto il Lazio: confini difficili da gestire, al punto che il “metodo investigativo” del critico, esclude una “napoletana” come Anna Maria Ortese, perché è nata a Roma, oppure Anna Banti di origini calabresi o ancora Elsa Morante, che ha radici siciliane. Il Sud è visto da Pedullà, seguendo i percorsi narrativi di cui sono protagonisti narratori come Pirandello, Alvaro, Vittorini, Brancati, La Cava e Pizzuto esaminati nella prima sezione del libro intitolata “Mezzo secolo d’avanguardie” e poi Rea, Sciascia, Bonaviri, Strati, Lampedusa e D’Arrigo, riuniti, questi, nella sezione “Mezzo secolo di realismi”. “Scuoiando” la coda della cultura del Novecento, il Sud di Pedullà lo si ritrova nelle storie del pugliese Lagioia, del siciliano Alajmo, del lucano Di Consoli, dei calabresi Gangemi e Criaco, del calabro-arbéresh Abate, della napoletana Parrella, del pugliese-lucano Raffaele Nigro.
Per il titolo, “Il mondo visto da sotto”, l’autore dice di avere un debito con un «ateniese che si attribuiva origini siciliane»: Alberto Savinio, fratello del pittore metafisico Giorgio de Chirico. Savinio, nel 1948, aveva fatto un viaggio in Calabria, dalle cui coste aveva visto la Sicilia, l’isola da cui era partita la famiglia De Chirico e aveva registrato le sue impressioni in alcuni articoli che avevano il senso di fargli chiudere il cerchio per tornare alle origini, anzi all’infanzia del mondo mediterraneo. Il “sotto” di Savinio è lo stesso sotto da cui guarda Pedullà: non riferito solamente alle visioni della letteratura, ma piuttosto ai gruppi sociali, alle comunità emarginate e ridotte al silenzio, al sacrificio delle donne, nonché ad altri modi di essere sottoposti, magari anche per colpa propria, oltre che di coloro che stanno “sopra”.
Dovendo indicare il nome di uno scrittore, cui intitolare il Novecento, Pedullà ha gioco facile. È quello di Pirandello, che viene in mente per primo e ci resta. «È da un secolo che il “siciliano” – sostiene il critico letterario – rappresenta la letteratura italiana nel mondo, accanto a Proust, Joyce, Kafka, Musil, o meglio rappresenta il teatro e la narrativa mondiali nel gruppo di cinque autori, la cui durata al vertice li rende universali». Non possiamo non dirci pirandelliani, ammette Pedullà, «ma talvolta torniamo a sentirci anche verghiani, come ora che si conquista politicamente il potere soltanto per fare denaro». Nel Sud – osserva – ora è notte, ma come direbbero i contadini di Alvaro e Silone, spunta sempre un nuovo giorno. Così gira il mondo.
I maggiori narratori meridionali, questo mondo, lo hanno quasi sempre raccontato partendo dal luogo natale. La Sicilia di Vittorini è un’isola in cui c’è il globo intero. Potrebbero averlo pensato anche Brancati, D’Arrigo, Pizzuto e Bonaviri della loro Sicilia. Lo potrebbe aver pensato anche Alvaro, che della Calabria è il capofila di una narrativa che, secondo Pedullà, ha una sua specificità; nel senso che più che alla storia è fedele alla natura: magari per colpa della storia, che dalle parti di Alvaro ha meno fretta che altrove. Conta la geografia nella storia. Conta, a leggere le opere di Alvaro, o dei “siciliani” del Novecento, e poi andando a ritroso a Verga, Capuana, De Roberto, Serao, Deledda, che hanno raccontato gli anni Settanta-Novanta dell’Ottocento. La geografia, come la lentezza storica, se non ha determinato ha sicuramente influenzato quella letteraria.
Pedullà, ad un certo punto, ricorda che Sciascia un giorno vaticinò: «Non c’è più nulla da fare per correggere gli errori del Sud, dobbiamo tenercelo com’è». Tutto fatto, dunque, nessuna speranza? Pedullà vede un’alternativa: «Se si è toccato il fondo, non si può scendere ancora sotto. Restare giù sarebbe la morte, che nessuno vuole. Quale che sia il genere letterario, una cosa è chiara a tutti: a tutti gli italiani toccherà lottare per risalire e stavolta per risalire non significa andare al Nord. Per staccarsi dal fondo, bisognerà puntare i piedi a Sud».
di Domenico Nunnari
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