Nel 1931 la filiale americana della Dora film, con sede a New York, chiese la collaborazione della casa madre per la coproduzione del film La vita del brigante Musolino, assurto ormai a una fama mondiale.
«La detta film – sottolineano i coproduttori americani – dovrà avere una lunghezza di non meno 2500 m senza titoli: scene di vendetta ed arresto, da prendersi sui luoghi propri in Calabria, dove successe il fatto, vestiti alla calabrese di quei tempi… Dietro Vs. risposta ci regoleremo se dovete farla voi, oppure altri… il film avrà inizio con la fuga del brigante dal carcere di Gerace…». “Negli appunti di regia”, la Notari scrive: «La vita del brigante Musolino fu realizzato esclusivamente per il mercato estero…. Il film, per ottenere il visto dell’ufficio di censura del Ministero dell’interno, fu presentato con il titolo La leggenda della montagna». Il quotidiano “Il Progresso Italo-Americano” pubblicizzò l’anteprima del film tra la comunità italiana (“Film di grande interesse, dove rifulge l’amore e l’onore”) e fu presentato con grande successo a Washington, il 20 agosto 1931, abbinato al documentario “Primo Carnera”, pugile di origine italiana, soprannominato, per la sua imponenza fisica, “La montagna che cammina”, allora al massimo della popolarità.
Tale proiezione però aveva allarmato il Ministero dell’Interno italiano, messo sull’avviso dall’ambasciata italiana a Washington con la seguente informativa: «La vita del brigante Musolino è una filma italiana a carattere sensazionale e tendenzioso. Data l’origine italiana della filma in parola che è assai vecchia, non dovrebbe essere difficile individuare la fonte della inopportuna riesumazione che danneggia il prestigio italiano, forse anche tra le masse incolte, sulla quale non è da escludere che il titolo possa ingenerare dei grossolani equivoci, quello del “regime”…». Questa preoccupazione è prontamente condivisa dal Ministero, che si affretta a chiarire: «se un americano avesse visto questo spettacolo: osterie infime, catapecchie… la morra, gli immancabili spaghetti, sarebbe tornato a casa con una ben misera impressione dell’Italia». Il film naturalmente naufragò, ma resta il dubbio che a tale fallimento non fosse estraneo il timore di una fatale assonanza tra il cognome del brigante e quello del Duce. È, questo, uno degli innumerevoli episodi di cui è ricco il bel libro di Maurizio Paparazzo e Giovanni Scarfò, Cine Tour Calabria. Guida alla Calabria cinematografica, collaborazione ai testi di Ulderico Nisticò e Daniela Rabia, apparso da poco per la Rubbettino.
La Calabria non è ritenuta una regione che ha sollecitato grande interesse cinematografico, ma è una considerazione radicalmente erronea: in questa loro opera, gli studiosi, già conosciuti negli ambiti intellettuali, non soltanto calabresi, sottolineano opportunamente la “congiuntura astrale” nella quale si trova attualmente la Calabria dal punto di vista della produzione cinematografica. Si pensi per tutti, al successo internazionale di Anime nere, di Francesco Munzi e d’altronde, dicono gli studiosi, non «si era mai verificato che giovani registi ricevessero apprezzamenti in tutto il mondo come nel caso di Jonas Carpignano per A Ciambra e di Aldo Iuliano per Penalty, o premi prestigiosi come per Bismillah di Alessandro Grande o per The Millionaires di Claudio Santamaria. La Calabria è uno straordinario set a cielo aperto. Lo hanno colto registi di talento del calibro di Camerini, De Seta, Comencini, Germi, Castellani, Rossellini, Monicelli, Pasolini, Bellocchio, che hanno scelto la suggestiva luce del cielo calabrese per esprimere la loro arte. E tanti altri ancora più recentemente come Amelio, Wenders, Nuti, Frammartino, Rohrwacher, Avati, Di Robilant, Manfredonia, Carlei, Calopresti, Mollo, Boyle».
Il libro si articola attraverso otto scenari territoriali o itinerari cinematografici nei quali si addensano via via notizie storiche, architettoniche, paesaggistiche, antropologiche relative ai diversi centri, assunti, nel tempo, come location di film o di documentari.
La letteratura calabrese viene così richiamata quando vengono riportati i nomi dei paesi che hanno dato i natali ai nostri migliori narratori: San Luca (Corrado Alvaro), Maropati (Fortunato Seminara), Palmi (Leonida Repaci), Bovalino (Mario La Cava) e così via.
Storie di feudi, di riscatti, di orgogliosa vita demaniale, sommosse e cause inoltrate presso la Corte, benefici e donazioni regali scorrono come un film, appunto, rendendoci consapevoli di vicende troppo spesso obliate od oggetto di equivoci e fraintendimenti. Ho letto i diversi itinerari ritrovando, volta a volta, luoghi, storie e figure a me cari che la lettura restituiva con tutta la potenza di una memoria vivificante. Il volume costituisce, in questa prospettiva, una mappa accuratissima della Calabria, che delinea così una topografia dell’anima, degli affetti di quanti si sentono irrimediabilmente legati a questa terra.
Il volume, infine, è arricchito da stupende immagini che trasmettono una sensazione di incomparabile bellezza e costituiscono un vero e proprio godimento della visione, posto che “visione” è un saper guardare oltre.
Maurizio Paparazzo e Giovanni Scarfò e i loro collaboratori Ulderico Nisticò e Daniela Rabia ci hanno fornito con questo lavoro un libro prezioso, che merita, a mio avviso, una accoglienza ottimale.
Secondo lo studioso Lœffer-Delachaux, autore dell’opera Le symbolisme des contes de fées, quegli uomini ignoti che per migliaia di anni lavorarono a costruire i miti «hanno cosparso le loro opere di chiavi d’argento, di chiavi d’oro, di chiavi di diamante». Anche in questo volume vi sono chiavi d’argento, chiavi d’oro, chiavi di diamante: si tratta di trovarle e saperle utilizzare.
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