Un’intensa attività di intelligence ha segnato il conflitto Usa-Urss: ne scrive Vecchiarino.
Le spie sono come l’acqua sotterranea. Se ne può supporre esistenza e comportamento, ma non si è in grado di indicarne identità e caratteristiche sino al momento della scoperta. Libri come quello di Domenico Vecchiarino sulle spie che durante il tempo della guerra fredda (1946-1991) hanno contribuito a fare la storia del novecento (Rubbettino, settembre 2022), sono benvenuti anche per questa ragione. Consentono al grande pubblico di comprendere i meccanismi reconditi della politica internazionale e di spiegarsi fatti che, se ci si attiene alle apparenze, risultano incomprensibili. Un giorno o l’altro sapremo, ad esempio, qual è stato il ruolo delle spie nell’indecifrabile e ignobile guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina, e torneranno, forse, i conti, cosa impossibile in base alle attuali informazioni.
Per ora contentiamoci di saperne di più sulla trentina di episodi topici della guerra di spie tra i cosiddetti oriente e occidente che, grazie a Vecchiarino, ci vengono svelati o dettagliati. Cominciamo dalla definizione che l’autore dà di spie e agenti segreti: “i veri protagonisti della guerra fredda […], chi per mestiere o per necessità, [altri spinti] da motivazioni ideologiche o semplicemente per soldi”. Aggiunge l’autore che si trattava di uomini e donne che accettavano di vivere “sul filo del rasoio”, “in qualche caso rimettendoci la vita”.
Non corse nessuno dei due rischi, la spia che portò in occidente lo storico quanto ultrasegreto rapporto di condanna a Stalin e allo stalinismo che Nikita Chruščëv pronunciò al XX congresso del partito Comunista il 25 febbraio 1956. Il documento fu pubblicato dal New York Times il 5 giugno, grazie a “una fonte confidenziale”, che l’aveva fatto arrivare ad Eisenhower. All’origine del rocambolesco percorso Mosca-Varsavia-Vienna-Tel Aviv-Washington, Victor Grayevski giornalista polacco ebreo intimo della segretaria del capo del partito Comunista polacco Edward Ochab. Su richiesta, la ragazza gli aveva rimesso il documento per un paio d’ore, il tempo sufficiente per leggerlo, portarlo all’ambasciata israeliana per le fotocopie del caso, restituirlo in tempo per la chiusura dell’ufficio. L’avventura di Grayevski non finì lì: decise d’emigrare in Israele e divenne doppiogiochista con il Kgb (autorizzato da Shin Bet, il servizio di sicurezza interna) fino al 1971, quando – dove aver fatto fessi i sovietici per decenni – decise di godersi la pensione.
Andò decisamente peggio a un altro israeliano, Eli Cohen, nato nel 1924 in Egitto da ebrei emigrati dalla siriana Aleppo, spia per Mossad (il servizio per la sicurezza esterna). Riuscì così bene a ingannare Damasco da farsi nominare (dopo essersi infiltrato nella élite siriana durante il lungo periodo trascorso in Argentina) consigliere capo del ministro della Difesa della Siria, paese tanto convinto della necessità di distruggere Israele da aver pianificato la deviazione degli affluenti del Giordano per assetare i vicini. Dalla sua posizione di vertice, Eli non solo trasmise ad Israele ogni informazione strategicamente utile, ma creò situazioni che si sarebbero rivelate risolutive. La più celebre e paradossale riguarda gli eucalipti che fece piantare sulle alture del Golan allora ancora siriano, con la finalità di mimetizzare le postazioni dalle quali bombardare i nemici. Peccato (per i siriani!) che gli eucalipti, una volta cresciuti, sarebbero stati un indizio facile da individuare e colpire, come infatti sarebbe accaduto nella guerra dei Sei Giorni (1967). Nel frattempo, Eli, dopo tre anni di onorato servizio (pro-Israele) nel gennaio 1965 era stato scoperto e a maggio impiccato, sotto l’occhio vendicativo e soddisfatto della tv siriana.
Su un altro teatro, quello dell’Europa spaccata in due dalla Seconda grande guerra, sono molti i racconti del libro, uno dei quali dedicato al pannolino che salvò Oleg Gordievskij, agente del Kgb resosi doppio con danesi e britannici dall’invasione cecoslovacca del 1968. La sua esfiltrazione avvenne nel luglio 1985, attraverso una Ford diplomatica britannica che portava la famigliola di un funzionario d’ambasciata a curarsi in una clinica finlandese. Al penultimo posto di blocco di frontiera, cani alsaziani si avvicinarono al bagagliaio annusando: Oleg sarebbe stato scoperto se la moglie del diplomatico non avesse deciso di appoggiare il figlioletto sul cofano cambiandogli il pannolino. L’odore di quello gettato a terra distolse gli alsaziani che si allontanarono. Giorni dopo avrebbe dichiarato al Times: “Non mi manca niente della Russia. Sono inglese dal giorno in cui ho deciso di diventare un agente dei servizi segreti britannici”.
Domenico Vecchiarino, Le spie della guerra fredda, Rubbettino, 2022, pp. 254