Da Avvenire 5 Agosto
Nel 1910 il giornalista britannico Norman Angell dava alle stampe La grande illusione, un libro oggi dimenticato, eppure destinato allora a vendere milioni di copie in tutta Europa. In quel saggio Angell intendeva gettare le basi per uno studio della politica internazionale fondato sull’analisi dei mutamenti economici intervenuti nell’Ottocento. La tesi di Angell – semplice quanto fulminante – era che la guerra fosse ormai solo una «grande illusione». Se infatti nel passato il ricorso alle armi aveva rappresentato uno strumento per migliorare la posizione di uno Stato, la situazione era ormai radicalmente mutata. La crescita del commercio internazionale e l’interdipendenza economica avevano reso la guerra del tutto anacronistica. In un quadro segnato da un’elevata interdipendenza, la devastazione dell’economia di un Paese nemico avrebbe avuto effetti disastrosi anche sulla stabilità finanziaria de la stessa potenza conquistatrice. E proprio per questo il giornalista invitava i propri concittadini ad accantonare il timore che la Germania potesse muovere guerra alla Gran Bretagna. Probabilmente non è un caso che il libro di Angell sia oggi quasi del tutto dimenticato. E non è sorprendente che La grande illusione sia per molti solo il titolo del grande film in cui Jean Renoir fissò magistralmente l’insensatezza della guerra. Solo quattro anni dopo l’uscita del saggio, lo scoppio del primo conflitto mondiale dimostrò infatti che l’ottimismo di Angeli – il quale ottenne comunque nel 1933 il Nobel per la Pace – era stato quantomeno eccessivo. Proprio la tragedia della Grande guerra rafforzò però i tentativi di dare avvio a uno studio ‘scientifico’ della politica internazionale. A questi tentativi, come mostra Renata Allìo nel suo recente Gli economisti e la guerra (Rubbettino), hanno dato un contributo significativo anche gli studi economici. Non è forse casuale, comunque, che nel volume di Allìo buona parte dell’attenzione sia riservata alle classiche posizioni del mercantilismo e alla discussione sull’imperialismo condotta nei primi decenni del XX secolo. Come scrive infatti Allìo, ancora oggi “i neoclassici, tuttora il mainstream della disciplina, soprattutto a livello accademico, continuano a ignorare puramente e semplicemente la guerra”. Certo – come segnala opportunamente Allìo – anche di recente autorevoli studiosi, come per esempio Gordon Tullock e Thomas Shelling, si sono interessati a dimensioni specifiche della guerra, e non manca neppure un campo di studi dedicato esplicitamente all’economia della pace”. Eppure il grande nodo della guerra continua a rimanere marginale nelle riflessioni economiche. Senza dubbio si può in parte spiegare un simile disinteresse ricorrendo alla specificità disciplinare e alla parcellizzazione del lavoro che opera anche nel campo delle scienze umane. Ma probabilmente anche oggi per molti economisti, come un secolo fa per Angell, la guerra è un fenomeno reso obsoleto dall’integrazione economica. Purtroppo non è così. La cronaca ci conferma anzi che per molte aree del pianeta si tratta di una realtà drammatica. Una realtà di cui per questo è più che mai necessario indagare le cause (anche economiche). E che sarebbe quantomeno ingenuo relegare frettolosamente tra i cascami della storia.
Di Damiano Palano
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