Da Il Sole 24 Ore del 11 marzo
I dieci anni della discordia vanno dal 1861 al 1871: dall’Unità d’Italia ai primi dati disponibili sulla ricchezza della Nazione, quando il prodotto per ogni testa del Sud era calcolato come appena il 15 per cento inferiore di quello del Nord. Immaginare o scoprire che cosa accadde in quella famosa decade serve a capire chi abbia ragione tra gli storici e gli appassionati della materia sullo stato in cui versava il Regno delle Due Sicilie prima dell’annessione al Regno di Sardegna: era più prospero o più povero del vincitore? Alla vigilia d’importanti decisioni e trasformazioni vitali per il futuro del Paese questa vecchia e mai risolta questione torna di attualità e assume nuovi significati come dimostra la battaglia a colpi di libri e articoli di giornale che sta letteralmente impazzando per stabilire chi deve dare e chi deve avere. Ignorando la diversità genetica e antropologica ed escludendo il peso della storia dai Normanni ai giorni nostri passando per le tante dominazioni, dove sorge e come si afferma l’attuale arretratezza del Meridione? In praticala domanda dal classico milione di dollari è la seguente: i meridionali sono vittime delle circostanze o carnefici? Il rimedio dipende dalla risposta. E dopo 150 anni non c’è chiarezza né sull’una né sull’altro. Proprio le celebrazioni per l’Anniversario hanno però scatenato una nuova voglia di conoscenza che si riversa in una fiorente letteratura con tesi ancora una volta contrastanti.
I dieci anni successivi all’Unità sono un duro terreno si scontro. Ed ecco perché, con le inevitabili semplificazioni di una rubrica
giornalistica.
Ci si domanda: se il divario misurato nel lei è “solo” del 15 per cento (oggi è del 40) lo si deve alla florida situazione lasciata in eredità dai Borbone nel 1861 o al buon lavoro svolto dai Sabaudi quando li hanno sostituiti? Insomma, il Regno delle Due Sicilie era più ricco e progredito di quello di Sardegna, ed è precipitato in basso per i torti poi subiti, o era povero e arretrato e accolto nella modernità dai conquistatori per poi ripiombare in basso una volta tornato all’amministrazione locale?
Giovanni Vetritto ricorda per Rubbettino quanto affermato in proposito da Francesco Saverio Nitti, ministro e poi capo del governo ai primi del secolo scorso e autore della legge che ha consentito la realizzazione dell’Ilva a Bagnoli: al momento dell’Unità – sostiene Nitti – il Mezzogiorno «possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo». Insomma, il Regno del Sud se la passava bene e le sue casse furono svuotate per pagare le guerre contro di esso.
Vittorio Daniele e Paolo Malanima (Università della Magna Grecia di Catanzaro e Cnr di Napoli) hanno buon gioco con il loro «Divario Nord-Sud Italia», ancora di Rubbettino, ad addossare le responsabilità ai nordisti scrivendo che il Mezzogiorno è caduto nel circolo vizioso tra istituzioni sociali ostili e comportamenti individuali di freno allo sviluppo. L’aver consegnato le popolazioni meridionali al primato della politica, e non del mercato, ha di fatto premiato la clientela a dispetto del merito.Il sociologo piemontese Luca Ricolfi non ci sta e parla invece senza mezzi termini di «Sacco del Nord» (Guerini e Associati) provocando la reazione di Pino Aprile con «Terroni» e «Il Sud puzza» (Piemme) e di Gianfranco Viesti con «Abolire il Mezzogiorno» e «Il Sud vive alle spalle dell’Italia che produce. Falso!» (Laterza). I famosi dieci anni dal ’61 al ’71 del 1800 segnano definitivamente la sorte dei meridionali che hanno vissuto una vera e propria guerra di occupazione essendo spogliati di tutto.
Poi arriva il giovane Emanuele Felice, che insegna Storia economica a Barcellona, a spiegare con «Perché il Sud è rimasto indietro» (Il Mulino) che la colpa è tutta delle classi dirigenti meridionali più affezionate alla rendita che al rischio d’impresa. Un’attitudine che ancora dura e che tiene questa parte del Paese lontana dallo sviluppo. Dunque, bisogna cambiare registro. A partire dall’organizzazione dello Stato, dice il presidente dello Svimez Adriano Giannola, che reputa deludente la prestazione delle Regioni.
Nasce così l’idea di una nuova divisione territoriale in macro aree, una delle quali del Mezzogiorno almeno continentale. Lo storico Giuseppe Galasso si dichiara d’accordo: «Abbiamo creato lo e più Rome invece che una sola – scrive -. Di efficienza e semplificazione non ne parliamo».
Naturalmente neanche lo Stato ha fatto la sua parte ed è ora che cominci a pensarci garantendo almeno le prestazioni minime. Questa veloce e incompleta carrellata di opinioni offre una visione del terreno sul quale sì dovrà giocare la partita per il riscatto del Sud (vittima o carnefice che sia) alla prova dell’utilizzo della nuova tornata di fondi comunitari:
50 miliardi da qui al 2020 da non disperdere in mille rivoli. Irriverente come sempre il polemista Claudio Velardi che taglia corto sull’ultima polemica: «Niente napoletani nel governo? Non piagnucolate, create una classe dirigente».
Di Alfonso Ruffo
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